2017, Recensione Filiberto Molossi 2017, Recensione Filiberto Molossi

Amore, Tempo e Morte: Collateral beauty, il lutto secondo Pirandello, Dickens e Frank Capra

Segue e riannoda, passo dopo passo, caduta dopo caduta, il filo invisibile che collega ogni cosa, il nuovo, dolente, film del regista de <Il diavolo veste Prada>: trovando quasi con stupore, nel domino infinito di una lettera senza destinatario, nell'astrazione di un mondo da sfidare perennemente contromano, una segreta, e intangibile, bellezza collaterale. Come una luce, fioca ma instancabile, quando il buio è più fondo. Là dove comanda e detta le sue regole la santissima trinità dell'esistenza: amore, tempo, morte.

E' una pirandelliana elaborazione del lutto, una resurrezione emotiva che mescola Dickens e Frank Capra con la spiritualità vagamente new age di <Sette anime>, <Collateral beauty>, film terapeutico dell'altrove più lieve David Frankel che ci invita alla grande recita che siamo, costringendoci a uscire dalle quinte del nostro stesso malessere per partecipare alla messinscena di un vivere che per quanto precario non possiamo interpretare ritagliandoci solo un ruolo da marginali comparse.

Un cinema del <ricominciare>, del <ripartire> (o del <rinascere>) che affida la sua indagine introspettiva a una rivisitazione seria della commedia fantastica, con esiti disuguali, affiancando con umana vicinanza il calvario di Howard, un ex pubblicitario di successo che si è smarrito nel tunnel della depressione dopo la morte della figlia di sei anni. Tra i suoi pochi passatempi, quello di scrivere lettere piene d'insulti: al Tempo, all'Amore e alla Morte. Nei cui panni un giorno si calano però tre attori professionisti, ingaggiati dai suoi amici più cari: soci della sua compagnia che, per salvare la baracca e cercare di scuotere Howard, provano una terapia choc.

Meglio nella prima parte, quando gli interpreti scendono dal loro piccolo palco off Broadway per interagire sul set più grande che c'è, quello del mondo <reale>, che non nella seconda dove il protagonista (fino a quel punto quasi in secondo piano) si prende l'intera scena permettendo al film di tuffarsi nel melò più spinto e di dialogare col soprannaturale, <Collateral beauty>, pur contando su un cast in realtà inutilmente esagerato (Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Helen Mirren, Keira Knightley, Michael Pena, Naomie Harris...: continuo?), fonte più che altro di distrazione, ha un'idea di partenza non malvagia, ma si rivela più pretenzioso che pratico, nel tentativo un po' goffo di affrontare temi fondi e abissi esistenziali con sfilacciati concetti pseudo filosofici.

Read More
Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Steve Jobs, l'uomo che suonava tutta l'orchestra

Come può un uomo che non sa fare nulla – che non è un ingegnere, né un progettista, né un designer, né un esperto di marketing né, tantomeno, un buon padre –, cioè insomma uno che non sa nemmeno piantare un chiodo alla parete, essere un genio del computer? <Semplice: i musicisti suonano uno strumento, io tutta l'orchestra>.

Lo scrivo prima che qualcuno alzi la mano e dica che ha degli impegni o che del signor Steve Jobs in questi anni ha sentito parlare fin troppo: questo film è bellissimo, ma bellissimo davvero. E feroce, impietoso, brillante, serrato, intelligente. E coraggioso, soprattutto: nel rifiutare le false comodità del biopic, innanzitutto, rompendo invece le regole di un genere per riscriverle alla propria maniera. E svelare il <mistero Jobs> - la personalità contraddittoria e visionaria di un rivoluzionario incapace di esser migliore delle sue invenzioni – attraverso tre momenti chiave della sua vita privata e professionale, corrispondenti ai lanci di altrettanti prodotti. Come una sinfonia in tre movimenti il nuovo film di Danny Boyle, ognuno colto visivamente in un formato cinematografico (16 millimetri, 35 millimetri e digitale) differente, dove il fondatore della Apple incontra e si scontra con le stesse persone. Il medesimo schema, ma sempre diverso: ripeti, chiudi e riavvia.

Dal 1984, l'anno in cui il pc fu personaggio dell'anno per il Time, al 1998 del successo planetario dell'iMac: interamente o quasi ambientato in un teatro (la vita come una pièce), il cui ventre ricorda il cervello di un computer, l'ultimo lavoro del regista di <Trainspotting> e <The millionaire> disegna con un approccio narrativo spericolato il ritratto definitivo del <mito> Jobs, rendendolo il protagonista (adorato come un dio dagli estranei, detestato da chiunque lo conoscesse bene...) di un film chiuso, <end to end>, soffocante e incalzante, pieno di sfumature e di ombre. Una pellicola che Boyle, con felicissima intuizione, costruisce come una serie continua di confronti, replicando, in pratica, in una sorta di sistema binario, il rapporto tra uomo e computer, client/server, film/spettatore. Arrivando al cuore delle ossessioni di un artista al comando sull'onda di scelte stilistiche accattivanti, interpreti perfetti (su tutti Michael Fassbender, a cui basta un maglione nero per diventare Jobs, e Kate Winslet, entrambi candidati all'Oscar) e dei dialoghi pirotecnici e sorprendenti del geniale Aaron Sorkin (premiato col Golden Globe, ma dimenticato dall'Academy: che sarebbe un po' come andare al Louvre e scordarsi di vedere la Gioconda...). Un film folgorante, osteggiato a lungo dalla vedova di Jobs, ma moderno e scomodo; non un santino né una demolizione, ma, più di tutto, l'evoluzione di un sistema operativo complesso: l'uomo.

Read More