Elvis: il re è vivo, viva il re
Il re è vivo: viva il re. E' una Cadillac rosa col motore di una Ferrari, «Elvis»: più che un biopic un film-manifesto, la versione di Baz: un rutilante, visionario, immaginifico e strabordante big show sulla «rivoluzione Presley», su Elvis come dio del rock, leggenda, quello che volete o vi pare: ma soprattutto in quanto fenomeno capace di influenzare, in modo improvviso ma definitivo, la cultura di massa. Elvis, il ragazzo e il simbolo: che sul palco, limitandosi a essere semplicemente se stesso, imprime una svolta decisiva alla morale, al cambiamento dei costumi, alla libertà sessuale (il suo modo di muoversi, che fece scandalo...), persino (lui cresciuto tra i neri e con la loro musica) all'integrazione razziale. Accolto al Festival di Cannes da una standing ovation di 12 minuti il film di Luhrmann, che è piaciuto di più ai critici europei che a quelli statunitensi (trattasi, specie da quelle parti, comunque di «divinità» e il rischio blasfemia è sempre presente...) punta a fare della storia di Elvis, breve (morì, sfatto e distrutto, ad appena 42 anni) e eterna, un grande racconto americano. Dove più che la verità o la finzione, il racconto o l'interpretazione, conta - e esce potente dallo schermo - il cinema: forte di un montaggio insostenibile e spavaldo (le inquadrature sono brevissime, non durano più di 4-5 secondi l'una), il film (puntellato di una colonna sonora di guest star, tra cui i nostri Maneskin) assomiglia a Elvis nella sua sovrabbondanza, nel suo darsi, in maniera spericolata e generosa, al pubblico, alla gente. E allora ecco che Luhrmann, non proprio un alfiere della sottrazione, usa senza risparmio tutto quello che ha in dote: split screen, graphic novel, ralenti, fermo immagine, materiale d'epoca, scritte, sovrapposizioni. Ne esce un film visionario e potente, con una prima parte bellissima, frutto di un'energia incandescente e una seconda, invece, quella declinante, più ripiegata su stessa, ma non per questo (i momenti musicali sono straordinari, trascinanti o struggenti a seconda del momento) meno incisiva. Il regista di «Moulin rouge» ha poi un'idea vincente e funzionale nel consegnare la parte dell'io narrante all'antagonista, il colonnello Parker (che non era né colonnello né tanto meno si chiamava Parker...), il manager padre-padrone di Elvis. Un dualismo, quello tra Presley e il colonnello, su cui si regge la parte più puramente narrativa (e meno di palco e di pancia) del film: un rapporto sublimato padre/figlio (o vittima/carnefice) che mette, uno di fronte all'altro, una grande star nel ruolo del «cattivo», Tom Hanks, e un quasi sconosciuto - Austin Butler, autore di una performance (anche dal punto di vista fisico) clamorosa - in quello del protagonista.