Drive my car, salite su quella macchina
Accettate un consiglio d'amico: seguite quella Saab rossa. Anzi, saliteci proprio sopra. Ne vale la pena: è un viaggio da fare tutti insieme. Il più bel film dell'ultimo Festival di Cannes, lo stesso che ha appena trionfato come miglior film straniero ai Golden Globes, fa tappa finalmente anche nella nostra città, dopo la fortunata anteprima al Parma Fillm Festival dello scorso novembre. Celebrato dalla critica internazionale, premiato un po' ovunque (sulla Croisette vinse il riconoscimento per la miglior sceneggiatura), «Drive my car», è il gioiello di Ryûsuke Hamaguchi, 43enne giapponese che ha abbastanza pelo sullo stomaco e poesia nel cuore da potersi permettere un prologo lungo ben 45 minuti (alla fine dei quali partono i titoli di testa...), singolare e folgorante biglietto da visita di una pellicola che vi chiede più attenzione che fretta, paziente disponibilità verso l'altro (e verso il cinema) piuttosto che la logica convenzionale di chi ascolta una canzone solo in attesa del ritornello.
Tratto da un racconto di Murakami (pubblicato da Einaudi in «Uomini senza donne»), il film, dove vita e rappresentazione non smettono di incrociarsi, di fondersi, di «giustificarsi» a vicenda, racconta di un attore e regista che, dopo l'improvvisa morte della moglie (dei cui tradimenti era a conoscenza, ma preferiva fare finta di nulla), si reca a Hiroshima per partecipare a un importante festival teatrale: qui, per questioni assicurative, gli viene assegnata una giovane autista, chiamata a guidare la vecchia Saab rossa dell'uomo. Lei, taciturna, ha un passato difficile, lui, che in auto era abituato a memorizzare i testi, più di un trauma da affrontare. Poco a poco, lasceranno entrare l'altro nella propria sfera emotiva, nel proprio racconto personale e privato.
Forte di un copione elaboratissimo e stratificato, dove le parole della finzione risuonano nella realtà e viceversa, «Drive my car» è un film meravigliosamente umanista che ha personaggi splendidi che crescono insieme a lui. In cerca di una lingua comune, là dove molti sentimenti sono lost in translation, colpisce soprattutto quello sfiorarsi di solitudini, esaltato da un sottotesto teatrale (prima «Aspettando Godot», poi «Zio Vanja») denso e rivelatore.
Molto strutturato, con ottimi interpreti, «Drive my car» tocca corde fonde: forse perché «il testo ti interroga: se lo ascolti farai lo stesso anche tu».