2022, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2022, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Drive my car, salite su quella macchina

Accettate un consiglio d'amico: seguite quella Saab rossa. Anzi, saliteci proprio sopra. Ne vale la pena: è un viaggio da fare tutti insieme. Il più bel film dell'ultimo Festival di Cannes, lo stesso che ha appena trionfato come miglior film straniero ai Golden Globes, fa tappa finalmente anche nella nostra città, dopo la fortunata anteprima al Parma Fillm Festival dello scorso novembre. Celebrato dalla critica internazionale, premiato un po' ovunque (sulla Croisette vinse il riconoscimento per la miglior sceneggiatura), «Drive my car», è il gioiello di Ryûsuke Hamaguchi, 43enne giapponese che ha abbastanza pelo sullo stomaco e poesia nel cuore da potersi permettere un prologo lungo ben 45 minuti (alla fine dei quali partono i titoli di testa...), singolare e folgorante biglietto da visita di una pellicola che vi chiede più attenzione che fretta, paziente disponibilità verso l'altro (e verso il cinema) piuttosto che la logica convenzionale di chi ascolta una canzone solo in attesa del ritornello.

Tratto da un racconto di Murakami (pubblicato da Einaudi in «Uomini senza donne»), il film, dove vita e rappresentazione non smettono di incrociarsi, di fondersi, di «giustificarsi» a vicenda, racconta di un attore e regista che, dopo l'improvvisa morte della moglie (dei cui tradimenti era a conoscenza, ma preferiva fare finta di nulla), si reca a Hiroshima per partecipare a un importante festival teatrale: qui, per questioni assicurative, gli viene assegnata una giovane autista, chiamata a guidare la vecchia Saab rossa dell'uomo. Lei, taciturna, ha un passato difficile, lui, che in auto era abituato a memorizzare i testi, più di un trauma da affrontare. Poco a poco, lasceranno entrare l'altro nella propria sfera emotiva, nel proprio racconto personale e privato.

Forte di un copione elaboratissimo e stratificato, dove le parole della finzione risuonano nella realtà e viceversa, «Drive my car» è un film meravigliosamente umanista che ha personaggi splendidi che crescono insieme a lui. In cerca di una lingua comune, là dove molti sentimenti sono lost in translation, colpisce soprattutto quello sfiorarsi di solitudini, esaltato da un sottotesto teatrale (prima «Aspettando Godot», poi «Zio Vanja») denso e rivelatore.

Molto strutturato, con ottimi interpreti, «Drive my car» tocca corde fonde: forse perché «il testo ti interroga: se lo ascolti farai lo stesso anche tu».

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Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi

Un giorno e una notte tra i cuori infranti del Tokyo love hotel

Tra le macerie (anche sentimentali) del dopo tsunami, dove il sesso è più che altro clandestino e mercenario, estremo modo di comunicare in un mondo in cui è sempre più difficile capirsi, 24 ore – da una mattina all'altra – di un'umanità in cerca d'autore (e di amore), bloccata in uno stallo che è temporaneo solo in apparenza: là, fra molti segreti e altrettante bugie, nell'incrocio trafficato delle solitudini e dei cuori infranti, nella moltitudine delle voci differenti e invariabilmente inascoltate di un malessere diffuso. Lo stesso in cui si specchiano sopravvissuti al presente e sopravviventi a tutto ancora in cerca di qualcosa di meglio, se mai davvero esiste, se mai davvero c'è.

E' un film pieno di squallore e tenerezza, compassione e ironia, pasta precotta e tute dell'Adidas, <Tokyo love hotel>, affresco del Giappone contemporaneo tratteggiato nelle stanze di un albergo a ore. Uno di quelli, uguali a mille altri, di cui il regista Hiroki Ryuichi (lunga gavetta nel soft porno e persino nel sadomaso prima di guadagnarsi sul campo i gradi dell'autore) conosce da vicino l'assurda e inguaribile malinconia: un posto come l'Atlas, nel quartiere a luci rosse di Tokyo, che il giovane Toru, licenziato da un hotel a 5 stelle, gestisce con rassegnazione, guardando passare, insieme al tempo che resta, coppiette, squillo, vecchi pervertiti e inguaribili romantici.

La prostituta che non ha detto nulla al suo fidanzato, il ricercato che da 15 anni vive nascosto in un armadio, quello che scopre che la sorella gira film per soli adulti, quell'altro ridotto a distribuire volantini perché non ha accettato il pre-pensionamento: in bilico tra amarezza e speranza, paradosso e illusione, un film corale (scoperto al Far East di Udine dell'anno scorso) dove l'aria (poco) serena dell'Est spettina sogni e bisogni (così come desideri frustrati e aspirazioni negate) di un'insoddisfazione comune. Empaticamente vicino (come Murakami in certi romanzi) ai suoi personaggi (che hanno tutti qualcosa da nascondere, a volte anche a se stessi), il regista giapponese lascia però socchiusa la porta del lieto fine, non prescindendo mai da un umorismo surreale che rende meno dolorose le cadute di naufraghi e perdenti pronti a rialzarsi e a ripartire. Decidendo, sulla propria pelle, da che parte stare.

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