I 10 film più belli del 2016
È inevitabile: non scampiamo nemmeno noi al bilancio di fine anno. I film più belli del 2016? Un'idea ce l'abbiamo, anche se qualche esclusione si è rivelata dolorosa. Ma di getto - e soprattutto di cuore - ecco la top ten dell'anno: partendo dal numero 10.
10. LAND OF MINE
Una delle sorprese della stagione: dalla parte dei vinti, ragazzi come tutti con la divisa sbagliata. Un cinema che non mette la testa sotto la sabbia.
9. IL CASO SPOTLIGHT
Perché per due ore, in un momento in cui siamo sotto tiro, ci ha fatto sentire ancora orgogliosi di fare questo mestiere. Dici poco?
8. È SOLO LA FINE DEL MONDO
La regia più potente e colma di toccante energia dell'anno; il moccioso a volte si lascia prendere, ma è genio vero: guai a chi lo tocca.
7. CAPTAIN FANTASTIC
La commedia più felicemente anarchica e no global dell'anno: un bel film sulla famiglia, sull'utopia e sul compromesso, a volte necessario.
6. ANIMALI NOTTURNI
Il miglior prologo del 2016: basterebbe quello. Stile e cattiveria, con una prima mezz'ora tesissima. L'abito fa il monaco. E a pure il regista.
5. STEVE JOBS
Film ultra sottovalutato e invece molto moderno: 3 atti e rapporti uno a uno che richiamano quelli tra uomo e computer. La' dove nello scarabocchio di una bimba c'è chi vede il futuro.
4. AL DI LA' DELLE MONTAGNE
Passato, presente e futuro della Cina e della sua rivoluzione mancata. Un grande film struggente dove i ravioli al vapore conoscono un solo condimento: le lacrime.
3. PATERSON
La poesia delle piccole cose: il personaggio più toccante e empatico dell'anno è l'autista di bus di Jarmusch. Che conosce Dante: ma anche il peso e l'idea di una goccia d'acqua che cade sui capelli di una bimba.
2. NERUDA
Un inseguimento fantastico, una fuga che è letteratura oltre che cinema. Un film "grasso" e beffardo: il canto generale di un genio che nel 2016 ha portato sullo schermo anche i bellissimi "Il club" e "Jackie".
1. IL FIGLIO DI SAUL
Perché sì, perché è così che deve andare: perché è un film indelebile, che non viene via, che ti resta addosso. Folgorante e atroce: mentre i dettagli dell'orrore restano fuori fuoco, quando non fuori campo. Grandissimo.
Neruda, il canto generale di Larrain
Questa è la storia di un fantastico inseguimento. Fantastico, innanzitutto, perché è sì accaduto, ma non in questi termini. Ma anche perché surreale, grottesco, denso, ardito, metaletterario, epico. Un film a due voci (una lirica, la seconda interiore) che si creano l'una con l'altra fino a fondersi per diventare la stessa storia. In un mondo che forse è solo il frutto dell'immaginazione di un poeta. O di chi gli dà la caccia.
Contro biopic kitsch e felliniano dove più dell'uomo viene raccontato, anzi trasfigurato, il mito, <Neruda> è il canto generale di sovraesposto e pirandelliano realismo del miglior regista della sua generazione, il 40enne cileno Pablo Larrain: che gioca con la falsificazione, rifiuta l'agiografia e abiura il didascalismo per girare un film sovrabbondante e <grasso> in cui mettere in scena (e a nudo) il corpo dell'artista, la sua smisurata, e a volte sgradevole, grandezza.
Nel '48, Pablo Neruda (Luis Gnecco), poeta carismatico e senatore comunista, viene messo al bando dal suo Paese: accusato ingiustamente di tradimento, deve nascondersi e fuggire. Ma è inseguito da un giovane prefetto (Gael Garcia Bernal), che lo vuole consegnare alla giustizia a tutti i costi...
I continui movimenti circolari, il grandangolo, gli stacchi, quei lenti carrelli a uscire: stilisticamente ricchissimo e complesso, anche a livello di fotografia, nel modo di dosare (e usare, nonché osare) la luce, il film di Larrain (di cui a febbraio uscirà un altro biopic non convenzionale, il bellissimo <Jackie>) sorprende per visione e per scrittura, abbandonandosi a un abbraccio decadente, beffardo e malinconico al protagonista e al poliziotto creato a sua somiglianza, fragile e impotente guardiano di una frontiera immaginaria che segue l'aquila senza saper volare, comparsa solitaria (di un romanzo dove è di passaggio) in cerca di ruolo e di memoria. Figura tragica e senza identità, che si affanna a inseguire ciò che non può raggiungere: in un duello quasi metafisico tra invisibili condannati a sfiorarsi, come nel potente e magnifico finale nella neve dove tutto, anche la morte, diventa poesia. Segno, firma ed espressione politica del film profondamente nerudiano e molto ma molto intelligente di un autore che nel ritratto in controluce di una leggenda coglie, senza temere omissioni (<per scrivere bene bisogna sapere cancellare>), il soffio di una narrazione che sfugge a catene e costrizioni, parte, prima che di una storia, di un sentimento. E di un'ossessione.