Quel cinema che accoglie: Kaurismaki mostra L'altro volto della speranza
Siamo tutti stranieri, apolidi, esuli davanti a un film di Aki Kaurismaki, narratore sensibile e ultra malinconico di umane vicissitudini, regista geniale, bevitore impenitente, pigro senza remore (non necessariamente in quest'ordine): diversi in partenza, lontani, convinti delle nostre ragioni più che consapevoli dei nostri torti. E ogni volta succede la stessa cosa, si ripete la medesima magia: quel cinema ci accoglie, ci dà riparo, ci offre, se non una tregua, un rifugio. Al secondo capitolo della trilogia dei migranti (o dei porti, se preferite), Kaurismaki trasforma la solidarietà che animava il bellissimo <Miracolo a Le Havre> (miglior film dell'anno per la giuria della <Gazzetta di Parma> nel 2012) in fratellanza, raccontando, a modo suo, la favola amara dell'integrazione, dove si nasce musulmani e si muore ebrei, perché l'odio, oltre che cieco, è soprattutto, tragicamente, stupido.
Sulle note di un blues da reduci (là dove la terra non mostra misericordia per il contadino), il 60enne autore finlandese mette la sua cifra singolare e inconfondibile – fatta di facce da poker, fotografia anti naturalistica e desaturata, interni scarni e riconoscibili, dialoghi rarefatti (il primo è dopo 7 minuti: Dybala ci ha impiegato meno a segnare al Barcellona...), fredda e surreale ironia – al servizio di un discorso politico urgente e non procrastinabile, sciogliendo in forma poetica i nodi di un'attualità complessa, estraniandosi dalla bagarre rumorosa delle ideologie e dalle facili reazioni di pancia per cogliere piuttosto ingiustizie e insofferenze del presente nell'attraversare la solitudine quasi lunare di un mondo che ha ormai ben poco da ridere.
Film morale (ma mai retorico), minimalista e infine toccante, <L'altro volto della speranza> (Orso d'argento all'ultimo Festival di Berlino) segue le vite parallele di un profugo siriano che arriva, dopo averne passate mille, in Finlandia e di un rappresentante di camicie che, mollata la moglie, decide di rilevare uno strampalato ristorante dal menu non particolarmente invitante. Le loro strade, ovviamente, sono destinate a incrociarsi: e l'incomprensione e diffidenza iniziali lasciano presto il posto a fiducia e rispetto...
Molto più interessato all'effetto che non alla causa (<non so chi ha lanciato il missile>, dice il rifugiato, spiegando come la sua famiglia sia stata distrutta in un istante), certo che la guerra non faccia vincitori né vinti ma solo vittime, Kaurismaki porta il suo contributo all'emergenza profughi, schierandosi una volta di più dalla parte di chi tende una mano. E di chi, quella mano, la stringe, rivelando, con sintesi perfetta e silente (<in un film più si parla meno si dice>), l'odissea esistenziale di quel popolo senza nome che, fuggito dall'orrore, si ritrova bloccato in una terra di nessuno, respinto da una burocrazia che interpreta l'oggi solo attraverso assurde statistiche, costretto a fingere di sorridere perché non c'è spazio – in questo mondo - per i malinconici. Un'indifferenza e un rifiuto a cui il regista oppone, con la solita nota, paradossale, comicità (tra sushi con le aringhe, monologhi alla Shylock e la moda incontenibile dei ristoranti etnici...), la fede nell'utopia di un soccorso reciproco, celebrando l'umanità non scontata della comunità di stralunati, irregolari e emarginati a cui, come i suoi personaggi, sente di appartenere. Gente a cui basta uno sguardo o una sigaretta per capirsi: costretta a sedersi dalla parte del torto solo perché tutti gli altri posti erano già occupati.