Il club, l'inconfessabile impunità dei corpi disonesti

E' un film dal potere oscuro, questo: crudo, viscido, remoto. E maledettamente terreno: almeno quanto lo è il peccato e la sua stessa, inconfessabile, natura. Un dramma metafisico (eppure melmoso e lacerato) di disturbante ferocia che si avventura nella casa (con vista mare) delle pecorelle smarrite, ultimo avamposto della menzogna in cui, a orari stabiliti, si agitano demoni e fantasmi, <corpi disonesti> e anime turpi. Il domicilio coatto delle passioni represse, omertoso confino abitato da un manipolo di dannati che non conoscono pentimento: là dove il più bravo (e scomodo) dei registi sudamericani, il 39enne Pablo Larrain, coglie la modernissima impunità di chi non solo non è in grado di ammettere il proprio crimine, ma nemmeno di comprenderlo, incapace di accettare (e quindi di espiare) la propria colpa. Ed è soprattutto questo, l'amarissima attualità di una riflessione morale (e politica) che travalica l'assenza di fede e l'aspetto religioso, a fare grande un film senza speranza né riscatto come <Il club> (Orso d'argento a Berlino 2015), storia inquieta e flagellante, nel Cile di oggi, di un gruppo di sacerdoti spediti lontano da tutto a meditare sui propri misfatti, <ripudiati> dalla Chiesa eppure protetti dalla scure della giustizia dell'uomo, costretti a convivere in una casa che a volte sembra una prigione ma più spesso un circolo ricreativo. C'è il prete pedofilo, il collaborazionista del regime, quello che faceva soldi vendendo bambini: e un altro che è troppo vecchio anche per ricordarsi cosa ha fatto. Poi un giorno, chiamato a investigare su una drammatica vicenda, arriva in quel posto dimenticato da Dio un giovane gesuita, una sorta di inquisitore: che vuole ascoltare le loro <confessioni>...

Immerso in una splendida fotografia opaca (che più che luce, o assenza di essa, è uno stato d'animo, un sentimento), il film di Larrain - molto ben recitato (tra i preti rinnegati anche Alfredo Castro, l'attore simbolo del regista cileno) - ha lo sguardo inquieto e severo di chi sa che le vittime resteranno tali, destinate a pagare per tutti per non alterare la convenienza di uno status quo che non tollera scandali né terremoti: zittiti, manipolati, per sempre perdenti. Oppure, peggio, perduti: e come tali invitati a fare parte del club...

Fatalmente simili a quei levrieri condannati a correre inutilmente dietro a un feticcio, a una lepre di pezza: metafora non solo di un desiderio proibito e irraggiungibile, ma anche di una rivincita (etica, umana) mai come questa volta impossibile.

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