Recensione, 2018, Festival Filiberto Molossi Recensione, 2018, Festival Filiberto Molossi

Santiago, Italia: Moretti, “io non sono imparziale”

<Io non sono imparziale>.

Fossi nel cinema italiano (e nella Sinistra, ammesso che ne esista ancora una), io uno come Nanni Moretti me lo terrei stretto. Perché l'uomo potrà non piacere a tutti, ma il regista, l'intellettuale, è uno dei pochi disposti ancora a posare la sua cinepresa su quei fatti che la Storia non ha voglia di raccontare: uno dei pochi che non hanno paura di schierarsi, di prendere posizione, di scavare un solco, di difendere un'identità, un sentimento, di fare scudo, se necessario, a un'idea. In quel suo non tirarsi indietro, ma anzi nel fare un passo avanti senza chiedersi se si troverà o meno solo, c'è molto della forza di un film semplice, a tratti addirittura scoperto, eppure alto e attualissimo: un documentario secco ed esemplare che si volta indietro, allargando lo sguardo nelle crepe del passato per smascherare e metterci di fronte alle miserie del presente.

Rievoca il Cile del '73, del golpe militare atroce e vergognoso, ma parla soprattutto di noi, di quello che siamo stati e non siamo più, <Santiago, Italia>, il film con cui l'autore di <Mia madre> e <Habemus Papam> ci restituisce, non senza nostalgia, un'Italia solidale che si è smarrita nel tempo, incapace allora di voltarsi dall'altra parte, di fare finta di niente, ma al contrario pronta ad accogliere e integrare. L'unico Paese in Europa che si rifiutò di legittimare la dittatura di Pinochet: lo stesso che ospitò e aiutò a espatriare (fondamentale in questo senso l'operato del diplomatico parmigiano Roberto Toscano) i molti cileni che riuscirono a superare il muro (fortunatamente basso) della nostra ambasciata.

Alternati filmati d'epoca, documenti storici (potente, ancora oggi, l'ultimo messaggio di Allende), alle testimonianze di chi c'era, <Santiago, Italia> fa scaturire dalle parole, dai ricordi e dalle cicatrici immagini potenti (l'aguzzina che chiede alla prigioniera torturata di insegnarle a fare la maglia, la Croce Rossa che lancia ai detenuti caramelle come fossero scimmie...), elaborando l'anatomia di un omicidio: quello della democrazia. Andando oltre però l'orrore di quei giorni - e la commozione di adesso che si affaccia improvvisa e buca lo schermo, rigandolo di lacrime -, per riflettere sulla condizione (<scappavano dal Cile come scappano oggi dall'Africa>) di rifugiato: e sul dovere civile e morale di salvare chi chiede aiuto. Qualcosa che nel '73 a molti sembrò ovvio: ma che 45 anni dopo, un Paese smarrito nell'individualismo, cinico e indifferente, fatica a comprendere.

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2016, Recensione Filiberto Molossi 2016, Recensione Filiberto Molossi

Neruda, il canto generale di Larrain

Questa è la storia di un fantastico inseguimento. Fantastico, innanzitutto, perché è sì accaduto, ma non in questi termini. Ma anche perché surreale, grottesco, denso, ardito, metaletterario, epico. Un film a due voci (una lirica, la seconda interiore) che si creano l'una con l'altra fino a fondersi per diventare la stessa storia. In un mondo che forse è solo il frutto dell'immaginazione di un poeta. O di chi gli dà la caccia.

Contro biopic kitsch e felliniano dove più dell'uomo viene raccontato, anzi trasfigurato, il mito, <Neruda> è il canto generale di sovraesposto e pirandelliano realismo del miglior regista della sua generazione, il 40enne cileno Pablo Larrain: che gioca con la falsificazione, rifiuta l'agiografia e abiura il didascalismo per girare un film sovrabbondante e <grasso> in cui mettere in scena (e a nudo) il corpo dell'artista, la sua smisurata, e a volte sgradevole, grandezza.

Nel '48, Pablo Neruda (Luis Gnecco), poeta carismatico e senatore comunista, viene messo al bando dal suo Paese: accusato ingiustamente di tradimento, deve nascondersi e fuggire. Ma è inseguito da un giovane prefetto (Gael Garcia Bernal), che lo vuole consegnare alla giustizia a tutti i costi...

I continui movimenti circolari, il grandangolo, gli stacchi, quei lenti carrelli a uscire: stilisticamente ricchissimo e complesso, anche a livello di fotografia, nel modo di dosare (e usare, nonché osare) la luce, il film di Larrain (di cui a febbraio uscirà un altro biopic non convenzionale, il bellissimo <Jackie>) sorprende per visione e per scrittura, abbandonandosi a un abbraccio decadente, beffardo e malinconico al protagonista e al poliziotto creato a sua somiglianza, fragile e impotente guardiano di una frontiera immaginaria che segue l'aquila senza saper volare, comparsa solitaria (di un romanzo dove è di passaggio) in cerca di ruolo e di memoria. Figura tragica e senza identità, che si affanna a inseguire ciò che non può raggiungere: in un duello quasi metafisico tra invisibili condannati a sfiorarsi, come nel potente e magnifico finale nella neve dove tutto, anche la morte, diventa poesia. Segno, firma ed espressione politica del film profondamente nerudiano e molto ma molto intelligente di un autore che nel ritratto in controluce di una leggenda coglie, senza temere omissioni (<per scrivere bene bisogna sapere cancellare>), il soffio  di una narrazione che sfugge a catene e costrizioni, parte, prima che di una storia, di un sentimento. E di un'ossessione.

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Il club, l'inconfessabile impunità dei corpi disonesti

E' un film dal potere oscuro, questo: crudo, viscido, remoto. E maledettamente terreno: almeno quanto lo è il peccato e la sua stessa, inconfessabile, natura. Un dramma metafisico (eppure melmoso e lacerato) di disturbante ferocia che si avventura nella casa (con vista mare) delle pecorelle smarrite, ultimo avamposto della menzogna in cui, a orari stabiliti, si agitano demoni e fantasmi, <corpi disonesti> e anime turpi. Il domicilio coatto delle passioni represse, omertoso confino abitato da un manipolo di dannati che non conoscono pentimento: là dove il più bravo (e scomodo) dei registi sudamericani, il 39enne Pablo Larrain, coglie la modernissima impunità di chi non solo non è in grado di ammettere il proprio crimine, ma nemmeno di comprenderlo, incapace di accettare (e quindi di espiare) la propria colpa. Ed è soprattutto questo, l'amarissima attualità di una riflessione morale (e politica) che travalica l'assenza di fede e l'aspetto religioso, a fare grande un film senza speranza né riscatto come <Il club> (Orso d'argento a Berlino 2015), storia inquieta e flagellante, nel Cile di oggi, di un gruppo di sacerdoti spediti lontano da tutto a meditare sui propri misfatti, <ripudiati> dalla Chiesa eppure protetti dalla scure della giustizia dell'uomo, costretti a convivere in una casa che a volte sembra una prigione ma più spesso un circolo ricreativo. C'è il prete pedofilo, il collaborazionista del regime, quello che faceva soldi vendendo bambini: e un altro che è troppo vecchio anche per ricordarsi cosa ha fatto. Poi un giorno, chiamato a investigare su una drammatica vicenda, arriva in quel posto dimenticato da Dio un giovane gesuita, una sorta di inquisitore: che vuole ascoltare le loro <confessioni>...

Immerso in una splendida fotografia opaca (che più che luce, o assenza di essa, è uno stato d'animo, un sentimento), il film di Larrain - molto ben recitato (tra i preti rinnegati anche Alfredo Castro, l'attore simbolo del regista cileno) - ha lo sguardo inquieto e severo di chi sa che le vittime resteranno tali, destinate a pagare per tutti per non alterare la convenienza di uno status quo che non tollera scandali né terremoti: zittiti, manipolati, per sempre perdenti. Oppure, peggio, perduti: e come tali invitati a fare parte del club...

Fatalmente simili a quei levrieri condannati a correre inutilmente dietro a un feticcio, a una lepre di pezza: metafora non solo di un desiderio proibito e irraggiungibile, ma anche di una rivincita (etica, umana) mai come questa volta impossibile.

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