The martian: se Robinson Crusoe incontra Sofocle e gli Abba
E' un misto tra <Robinson Crusoe> e il <Filottete>, ma con le canzoni degli Abba. Sofocle, Defoe e la disco music nello stesso film? Beh, se hai fatto <Blade runner>, lanciato la saga di <Alien> e reinventato un genere con <Il gladiatore>, <forse> te lo puoi anche permettere... Gira intorno al pianeta uomo – e alle sue mille risorse -, <Sopravvissuto-The martian> (il titolo italiano era proprio necessario?), il fanta kolossal ingegnoso ed emozionante con cui il veterano Ridley Scott suggella l'incontro tra space odissey e cine-survivor, regalando a un astronaufrago del terzo millennio l'eterno mito della frontiera, qui nelle vesti, inospitali assai, di un irrespirabile pianeta color ruggine.
Un po' <Cast away> e un po' <Apollo 13>, umanista fino al midollo e marchiato dal sacro fuoco dell'ottimismo (e della fiducia: in se stessi prima di tutto), <The martian> è un inno senza deroghe (né incertezze) al coraggio e alla volontà, là dove la vita è più forte della morte e non esiste deserto – nemmeno quello della solitudine – che non si possa attraversare.
Il botanico Mark Watney (Matt Damon, in un'interpretazione molto empatica) viene abbandonato su Marte durante una missione della Nasa andata storta: i suoi compagni lo credono morto, ma in realtà non è così. Quando si risveglia – solo, con pochi viveri e incapace di comunicare con la Terra – dovrà dare fondo a tutte le sue conoscenze per sopravvivere.
Usa un crocifisso per accendere il fuoco, produce l'acqua grazie a una formula chimica, si serve dei suoi escrementi come fertilizzante; e se il ketchup è finito, niente drammi: c'è pur sempre il vicodin... Quanto <Interstellar> era filosofico, tanto <The martian> è pratico, quanto quello rifletteva sul senso del tempo e sulle sue trappole metafisiche, tanto questo vive un giorno per volta pensando pragmaticamente come portare a casa la pellaccia. Fatto del suo astronauta un emblematico eroe positivista che non include la resa tra le proprie opzioni, Scott celebra, in un film spettacolare e divertente (sì, avrebbe potuto essere più intimista, più interiorizzato: ma se spendi oltre 100 milioni di dollari cerchi pure di riprenderli...), la forza (anche morale) dell'individuo, l'all american boy che non può (culturalmente) darsi per vinto. Non prima, almeno, di tornare a casa (che, non mi stanco di ripeterlo, è un concetto alla base dell'identità a stelle e strisce): e di compiere un viaggio che, inevitabilmente, è anche dentro di sé.