FolleMente, l'Inside Out in carne ed ossa di Genovese
Lei è filofobica, lui urla quando è in casa da solo, lei è afflitta dal singhiozzo, lui si sta perdendo il derby, lei vorrebbe un cane, lui invece ha una figlia. E poi ci sono loro: tanti, entusiasti, ma anche litigiosi, insofferenti, spesso incontrollabili. I pensieri. Chiusi nella stanza del cervello con quelle facce un po' così da perfetti conosciuti (Giallini, Santamaria, Papaleo, Lastrico per lui; Pandolfi, Fanelli, Giannetta e Puccini per lei), a incasinare la vita senza istruzioni per l'uso di due come tanti.
Romanticismo, passione, razionalità, persino un pizzico - che non guasta - di follia: tra tecniche di seduzione e stabilizzatori dell'umore, preservativi alla frutta e piante di cui non si è capaci di prendersi cura, l'«Inside Out» in carne e ossa di Paolo Genovese, dove il cinema da camera vira, con calviniana leggerezza, verso la rom com più cerebrale e divertita.
Successo ultra annunciato (tra l'altro è uscito in oltre 800 copie nel deserto generale...) e forse momento della verità di un regista che sembrava avere perso l'appoggio del (grande) pubblico, «FolleMente» mette una sera a cena con un lui e una lei (Edoardo Leo e Pilar Fogliati, molto giusti e bene assortiti) al primo appuntamento. Lui è nervoso e porta il gelato, lei non sa come vestirsi e versa il vino. E adesso?
Gli imbarazzi, le piccole tensioni, le paure: quanto è difficile (cominciare ad) amarsi. Che poi è un attimo passare dalle farfalle nello stomaco alla gastrite...Girato quasi completamente in un appartamento (anzi, tre: quello «reale» e i due «mentali» abitati dai pensieri), il film passa in rassegna con simpatica disinvoltura stereotipi, manie, debolezze e imprevedibili risorse del maschile e femminile, abbondando in citazioni (addirittura «Arma letale 3»...) e giocando, in uno spazio teatrale che privilegia primi e primissimi piani, con le emozioni, in un lavoro di scrittura elaborata al servizio anche delle caratteristiche di dieci attori e attrici (tutti molto in palla) tra i più riconoscibili e amati.
Poi certo, l'ispirazione come detto è tutt'altro che inedita e il gioco alla lunga è scoperto, ma il film, più efficace che geniale, fa il suo, lasciando che il pubblico si riconosca in quella paura di restare insieme: che «quello giusto» mica puoi buttarlo via col vetro. Ma forse è meglio non pensarci troppo: anzi, «a volte non sarebbe male spegnere il cervello».
"Il nome del figlio": la parola attore esiste
Metti una sera a cena: il film che visse tre volte (la prima a teatro, poi al cinema - in una premiata pellicola francese -, e ora infine in questo godibile remake made in Italy) è un flipper impazzito di frustrazioni, di bugie, di delusioni, come certi giorni che «ti impapocchiano i pensieri», tra bimbi dai nomi assurdi (tipo Pin, che pensi sia un ex centrocampista del Parma e invece è un omaggio a Calvino), musicisti in remata che lavorano su versioni jazz delle canzoni del Califfo, figli di papà che sfoderano magnum di champagne e fidanzate (molto) più giovani e il suv lo parcheggiano nel posto riservato ai disabili.
«Eroi» (si fa per dire) dei nostri tempi, che si tatuano mezzi cuoricini e nemmeno hanno tempo di andare ad aprire la porta per non perdersi l’ennesimo retweet; specchio e spaccato di un’epoca ipocrita, egocentrica e innamorata di se stessa: che se però si piange addosso è solo per poi ritrovare un sorriso, un modo (magari sulle note di Lucio Dalla) di ripartire.
Fratello e sorella di ottima famiglia, il marito di lei e la ragazza (coatta e incinta) di lui, più un amico di infanzia: una serata come mille. Che invece sarà diversa da tutte le altre...
Saporita e pungente commedia corale in bilico tra passato e presente, il nono film di Francesca Archibugi guarda a «Carnage» (ma con molta più tenerezza che cinismo) muovendosi tra grandi segreti e scherzi crudeli togliendosi di dosso, grazie a un ritmo disinvolto, un’ovvia teatralità. Certo, il meccanismo è già noto (dal confronto adolescenza/maturità alla cena come resa dei conti o gioco al massacro) e c’è a tratti nell’impiattamento della regista di «Questione di cuore» una certa maniera borghese: ma è indubbio che la pellicola è vitale, anche nel suo saper ferire. E nella messa a nudo di ogni debolezza, «Il nome del figlio» rivela la vocazione da film d’attori, scatenando una bella jam session di interpreti ispirati (dalla Ramazzotti alla Golino, da Papaleo a Lo Cascio): una gara di bravura dove primeggia Alessandro Gassman. Uno a cui, alla luce delle ultime prove, bisognerebbe chiedere scusa.