Lion, il rewind dell'anima: solo chi si arrende è perduto
Non so se vi è mai capitato, da bambini (oppure anche da adulti), di perdervi: beh, <Lion> è quella cosa lì. E' quel momento: quella stessa angoscia, quella medesima ansia, la mancanza, terrificante e improvvisa, di qualsiasi punto di riferimento. E' un film sullo smarrirsi, un secondo o per sempre: quando ti senti il maledetto ago da cercare nel pagliaio e non appartieni a niente e a nessuno se non a te stesso. Condizione esistenziale di chi non riesce (ma almeno prova) a ritrovarsi: e si carica sulle spalle il peso, a volte insostenibile, del passato. Tra gli echi e gli spettri di ieri, nello struggente rewind dell'anima, dove solo chi accetta di arrendersi è davvero perduto.
E' un film ostinato e toccante, anche se fin troppo classico, fin troppo quello che ti aspetti (anche da un punto di vista meramente stilistico), l'opera prima di Garth Davis, capellone australiano già regista per spot (dove eccelle) e in tv (sua la miniserie <Top of the lake-Il mistero del lago>): una moderna odissea in una babele di lingue dimenticate, il percorso di rinascita di chi messa fuori la testa dall'acqua cerca la sua strada, nell'impossibilità, anche morale, di negare le proprie radici.
Candidato a 4 Golden Globes (tra cui quello per il miglior film drammatico dell'anno), <Lion> è la storia vera (e nell'economia emotiva della pellicola non è particolare da poco) di Saroo, bimbo indiano di 5 anni che in una notte del 1986 sale per errore su un treno diretto a Calcutta, a 1.600 chilometri da casa sua. Spaventato, senza un soldo, incapace di tornare da dove è venuto, rischia di finire per due volte nelle mani di pedofili e trafficanti di minori: poi, viene chiuso in un orfanotrofio. Da cui esce per essere adottato da una coppia australiana. Diversi anni dopo, ormai giovane adulto, si interroga però sulle sue origini: e comincia una ricerca ossessiva su Google Earth per ritrovare, affidandosi ai suoi ricordi sbiaditi, la strada che lo possa riportare a casa.
Diviso praticamente in tre atti, che poi sono due più un epilogo – una prima parte, ansiogena e dickensiana, in India, una seconda, che sfiora il family drama, in Tasmania, una terza, quella del ritorno (il <nostos> caro agli antichi) nuovamente in India -, <Lion>, bello quando più tattile, quando parla per gesti, carezze, abbracci, pesca più di qualcosa da <The millionaire> (anche il protagonista, un sofferto Dev Patel, è lo stesso), trovando una sua forza, una sua specificità, soprattutto quando mette la cinepresa ad altezza bambino per restituire il caos per nulla calmo di una Calcutta violenta e indifferente, dove tutto è giungla, privazione, sopraffazione. Il risultato, tra primi e primissimi piani e un tema musicale che si scioglie sui tasti bianchi e neri di un pianoforte, è un po' convenzionale, ma il film, servito bene dal cast (oltre a Patel, la Kidman e Rooney Mara, che ora per Davis sarà Maria Maddalena, e il bravissimo Sunny Pawar, debuttante di 8 anni scelto tra oltre duemila ragazzini), sa essere – quando serve – emozionante.