Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Personal shopper, il fantasma dell'io

E' un film sull'assenza, <Personal shopper>: degli altri - che sono <andati avanti> o, magari, non hanno abbastanza tempo, nonostante il loro mestiere sia <apparire>,  per  <esserci> -, ma anche di sè, di un io forse tradito,  smarrito in rimorsi e desideri inespressi, mortificati, castrati. Un'assenza che, anche in questo caso, è più acuta presenza: e diventa tormento, dubbio, inganno.

Accolto dai fischi alla proiezione per la stampa all'ultimo Festival di Cannes, ma poi successivamente applaudito dal pubblico e, soprattutto, premiato dalla giuria (con la Palma per il miglior regista), l'ultimo film, nato per dividere, di Olivier Assayas si avventura sul terreno minato dello spiritismo (scomodando, tra finti documentari e più autentiche suggestioni, artisti e intellettuali come Victor Hugo e Hilma af Klint) per mescolare nello stesso guazzabuglio elaborazione del lutto, crisi d'identità, alta moda, storie di fantasmi, deriva hi tech (con i dialoghi sostituiti dai messaggini di WhatsApp), giallo soprannaturale: il risultato a tratti è davvero  da brividi, ma non nel senso che si sarebbe aspettato l'autore.

Il quale, reduce dall'intrigante e assai profondo <Sils Maria> e pronto a tornare sul set niente di meno che con Stallone (non prima di avere firmato il copione dell'ultimo Polanski), porta sullo schermo la storia di Maureen (un'emaciata Kristen Stewart, intensa) che per lavoro sceglie gli abiti per una star del cinema e intanto attende un segno dal fratello gemello morto di recente. Ma un giorno un uomo misterioso la contatta via chat: cosa vuole? Cosa cerca?

Pasticciato e presuntuoso, nonostante non del tutto privo di fascino,  thriller esistenzialista (nei momenti peggiori ricorda <La corrispondenza>, il più recente e censurabile lavoro di Tornatore), <Personal shopper> invece di giocare maggiormente di astrazione evoca gli spettri senza paura di mostrarli, imponendosi all'attenzione solo nel momento in cui, aggirati gli schemi, mette a confronto la terrena e sensuale vanità  di abiti in grado  di fare sentire in colpa (perché le è vietato indossarli) la protagonista e il suo stesso  bisogno di spiritualità, la necessità di credere in un altrove, in qualcosa di diverso, di più.

Che poi quelle manifestazioni siano o meno una fantasia della ragazza è del tutto ininfluente: quel che conta è la riflessione sulla perdita, le ossessioni che lacerano, le ferite non rimarginabili. Quelle che lasciano cicatrici, che segnano: i film densi e, a volte, anche quelli sbagliati.

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Protagonisti, 2016 Filiberto Molossi Protagonisti, 2016 Filiberto Molossi

L'ultimo round: la malinconia di Ali e quell'incontro con Rocky

Ci sono mille modi per ricordare the greatest, il più grande di tutti. Perché dire che Muhammad Ali è solo un pugile (sì, certo: anche il migliore di sempre) sarebbe come affermare che i Beatles erano quattro ragazzini che cantavano canzonette o che Hitchcock era un tizio sovrappeso che girava gialli. Più che davanti a una leggenda dello sport qui siamo davanti a un'icona del XX secolo, forse l'ultimo vero grande mito (giunto all'ultimo, inesorabile, round) del mondo prima di Internet, dello smart phone e della paella vegana. E allora bisogna celebrarlo per bene. Ecco, io un paio di film da suggerirvi ce li avrei.

Un documetario molto bello, ad esempio, che ha già 20 anni ma non li dimostra: "Quando eravamo re".  A finirlo, il regista Leon Gast ci ha impiegato 22 anni: prima pensava di farne un film sul concerto che doveva precedere l'incontro del secolo, quell'Ali vs Foreman ribattezzato Rumble in the jungle. Poi ha capito che del concerto non fregava niente a nessuno: e ne ha fatto uno splendido ritratto - politico e carismatico - dell'uomo che sul ring danzava come una farfalla.

Ma soprattutto, quello che ci piace ricordare è l'originale biopic che alla figura (anche culturalmente, oltre che socialmente) mastodontica di Cassius Clay ha dedicato Michael Mann. Uno che, tanto per dire, ha girato film come "Collateral", "Insider", "Heat""Alì" è uno dei suoi film più sottovalutati: ed è un peccato. Lo osteggiarono da subito, specie perché la parte del protagonista era andata a Will Smith, uno famoso fino a quel puntoper "Men in black" e "Il principe di Bel Air" . In realtà è un bellissimo film,  denso e scomodo come tutti quelli di Mann. Che a un personaggio già così raccontato, sviscerato, rimodellato, ha donato una luce diversa: una sorta di indecifrabile malinconia. Fateci caso: per tutto il film, nei trionfi come nelle cadute, nella gioia come nella rabbia, nello sguardo di Will Smith/Ali c'è un riflesso di tristezza. Un senso di rimpianto, una fitta sotto pelle. E' una lettura inedita e potente di chi, a volte, sembrava agli occhi meno attenti solo uno sbruffone, un provocatore.

Che poi vinceva perché - come ha spiegato Nino Benvenuti, uno che ne ha date e ne ha prese - non era solo il più forte: ma, soprattutto, il più intelligente. Abbastanza da essere, quando serviva, anche spiritoso: come alla cerimonia degli Oscar del 1977, quando sul palco salì Sly Stallone, reduce dal successo di "Rocky". Guardate il video per vedere cosa successe...

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Da Fuga per la vittoria allo Stade de France: quella Marsigliese da pelle d'oca

Tra tutte le immagini terrificanti che sono arrivate da Parigi ce ne è soprattutto una che mi mette i brividi a guardarla, che mi fa venire la pelle d'oca: i tifosi all'uscita dello Stade de France che cantano la Marsigliese. I tifosi di un match assurdo, gli spettatori impotenti di quella che è diventata, in tutta Europa, la partita dell'odio. Escono dallo stadio e cantano l'inno: tra tutte le (moltissime) parole che si sono spese fin qui, rispetto a quanto accaduto questa mi sembra la risposta più bella, efficace, esaustiva e commovente. E là dove la realtà è più feroce mi ha fatto venire una scena che è <solo> finzione. Anche allora c'eradi mezzouno stadio. E una partita. E anche allora a Parigi giocava la Germania. Il film è "Fuga per la vittoria", la sequenza quella finale: il momento del rigore a tempo scaduto. E' finzione: ma anche a quell'epoca l'odio, la guerra, la paura erano vere. E anche quella volta si cantò la Marsigliese: anche quella da pelle d'oca. Eccola:


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