Foxcatcher e l'arte di perdere (tutto): l'America senza padri in lotta con se stessa
Storia vera ed eccentrica del complesso rapporto di fascinazione che legò uno stravagante milionario appassionato di lotta libera a due fratelli campioni olimpici che il ricco magnate assunse nel suo team, <Foxcatcher>, terzo film di Bennett Miller, newyorchese classe '66 (è quello de <L'arte di vincere>, ma anche di <Truman Capote>), cerca costantemente la presa muovendosi sulla scivolosa pedana della vita, in un abbraccio che sa essere anche mortale. Attraversato da una tensione palpabile, come un filo scoperto dove non smette di passare la corrente, la pellicola - nel confronto (che sublima quello padre/figlio) tra il ricco paranoico che cercava ossessivamente la stima della madre e il gigante triste che non voleva più vivere nell'ombra del fratello - costruisce una moderna tragedia dove il senso di inferiorità dei protagonisti è anche la metafora di un Paese scontento e malato di patriottismo, in continua lotta contro se stesso. Un film ostile, disturbato, antiretorico: <diverso> e perennemente inquieto in quel suo stare alla larga da facili e risolutive scene madri per ingaggiare invece con lo spettatore una vera e propria guerra di nervi, in un crescendo ansiogeno dove l'attenta e calibratissima regia di Miller riduce sempre più lo spazio di manovra di chi guarda, chiudendoci in un angolo da dove non si esce.
Ma se la disturbante sensazione di disagio ha spessore tangibile è merito anche dei superlativi interpreti: se Channing Tatum e Mark Ruffalo (i fratelli lottatori) hanno compiuto un lavoro straordinario anche sulla postura (guardate come camminano: capirete cosa significa essere un attore), a Steve Carell, finalmente in un ruolo drammatico, è bastato un naso finto per incarnare, in modo memorabile, la squallida mediocrità del male.