Se Ramona si sente Ray: 3 generations allo specchio
Si chiama Ramona, ma si sente Ray. E' un adolescente imprigionato in un corpo da ragazza, un sedicenne in cerca di sè nel complicato viaggio delle vita, il protagonista di <3 generations>, film gender per eccellenza con cui Gaby Dellal esplora il territorio minato e senza riferimenti della transizione, quando non si è più quello che si è stati ma non si è ancora quello che si vorrebbe essere: una commedia (seria e, a tratti, dolorosa) sull'identità, sulla coraggiosa affermazione del proprio io negato che - nell'affrontare un tema pieno di insidie come quello del cambiamento di sesso - sfocia, in realtà, in un family drama al femminile. Dove, ancora più della trasformazione in atto di Ramona/Ray, conta la fragilità dei rapporti (di forza) e l'indissolubilità dei legami (di sangue) che governano le parti in campo di un anomalo focolare domestico composto dalla ragazza che vuole diventare ragazzo, dalla madre divorziata che l'appoggia e dalla nonna lesbica, che invece è spaventata da quanto potrà accadere. Tre generazioni, appunto, costrette inevitabilmente ad entrare in collisione, ma anche a sorreggersi e a soccorrersi reciprocamente, in un film onesto e sentito ma che avrebbe potuto e dovuto mordere di più. Anche se l'assenza di pregiudizi e il ricorso all'umorismo permettono alla pellicola di trovare la sua strada, complici le interpretazioni della giovanissima Elle Fanning, di Naomi Watts e di una strepitosa Susan Sarandon, 70 anni e non accorgersi di averli.
Zoolander 2: il sequel è meno figoso nonostante la passerella delle celebrities
<Non puoi uccidere la moda!>. <Ho paura che la moda si sia già uccisa da sola...>.
E' un film vipposissimo e stiloso, remix ultra pop (e post demenziale) di un cult movie <postumo> (accolto con discreta indifferenza alla prima uscita, è diventato col tempo, anche in Italia, un venerato oggetto da collezione, come certe borse limited edition), il sequel fashionista di <Zoolander> che Ben Stiller ha girato in una Roma da cartolina 15 anni dopo (e si sentono tutti) dall'eccentrico originale, ormai diventato un marchio riconosciuto, un brand. <Costretto> dalle pressioni dei fans a risalire in passerella, Stiller al secondo tentativo assomiglia però a quei campioni che, abbandonata l'attività agonistica, tentano di tornare alle gare con esiti non proprio entusiasmanti: la forma è svanita, l'effetto sorpresa anche. E hai voglia di inseguire le tracce di simulacri anni '80 e '90 e di certe icone di ritorno (la Fiat 500, ad esempio) nel frullato massimo, ma <figoso> fino a lì, delle mille e una citazione. Perché sì, la banda <Zoolander> è ancora idiota abbastanza da strappare il sorriso, ma la pellicola, più che per la trama, insulsa e insignificante, attira l'attenzione solo grazie alla carrellata senza sosta delle celebrities della moda e non (da Anna Wintour - <la strega bianca di Narnia> -, potentissima direttrice di <Vogue>, allo stilista Valentino, grande a mettersi in gioco, ma sempre più simile al suo imitatore, da Sting con tanto di barbone ieratico a Katy Perry, da Marc Jacobs a Justin Bieber, che mentre muore si fa un selfie...), autoironici comprimari di un film-party dove anche i divi (Kiefer Sutherland, Susan Sarandon che cita <The Rocky horror picture show>, John Malkovich, Benedict Cumberbatch...) si prendono in giro, costellando di cammei, sulle note di hit di 30 e più anni fa, le avventure retro Bond e <stravistiche> (per dirla nella lingua Zoolù...) di Derek Zoolander (Stiller) e dell'inseparabile amico Hansel (Owen Wilson), super modelli ormai fuori moda che per rientrare nel giro si aggrappano (in ogni senso) a una procace agente dell'Interpol (Penelope Cruz), decisa a fare luce sugli omicidi di alcune rock star. Il mix delirante di parodia, family drama, buddy movie, commedia e spy story è però, oltre che volutamente esteriore, vuoto cavo all'interno e rischia di risultare indigesto a chi bazzica poco nel mondo fashion e un po' stantio anche agli amanti del primo film. Che speravano di rifarsi occhi e guardaroba: ma si devono accontentare di un cappotto vintage già liso.