Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi

The accountant, se Rainman si traveste da Superman

Rainman? Ora si traveste da Clark Kent: un genio matematico come quello di <Beautiful mind>, ma con muscoli e determinazione che nemmeno Terminator. E' un puzzle al contrario a cui manca solo l'ultimo pezzo, una filastrocca per bambini ripetuta all'infinito, un quadro di Pollock in cui riconoscere anche il proprio groviglio, <The accountant>, thriller ad alto tasso di improbabilità diretto dal newyorchese Gavin O'Connor (quello di <Miracle> e <Warrior>): cinema di genere, ma con un protagonista per lo meno singolare. Uno come Christian, insomma, che della diversità fa la sua forza: contabile autistico e formidabile che tiene un Renoir nella roulotte, può annientare a mani nude anche sette persone alla volta e sa colpire un bersaglio da un chilometro e mezzo di distanza. Privo di una vera identità e senza fissa dimora, è al soldo della malavita organizzata per cui ripulisce denaro sporco e scova ammanchi invisibili: i federali gli danno la caccia, ma forse non tutto è come sembra... Deciso e intrigante, non privo di sarcasmo a volte spiazzante, il film ha dei numeri (in tutti i sensi...) ma, partito bene (l'inizio teso con la macchina da presa a livello terra, i flashback cattivi...), si perde in trovate di sceneggiature poco plausibili che deflagrano in un brutto finale familista. O'Connor ci sa fare, è efficace nelle sequenze d'azione e tiene alta la guardia anche in quelle para sentimentali, ma sparge troppi personaggi in giro, alcuni dei quali poi vengono smarriti per strada o ritrovati troppo tardi. E un Ben Affleck in formato bietolone non è particolarmente utile all'impresa.

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Terminator: se il vecchio Schwarzy incontra se stesso più giovane

<Sono vecchio, non obsoleto>. Dice di essere un esubero, ha i capelli prima tinti e poi bianchi e qui lotta addirittura, suonandogliele di santa ragione (in una scena cult...), con il suo se stesso di trenta anni più giovane. E sì, ti fa anche un po’ di tenerezza: proprio lui, ex culturista con un cognome impronunciabile partito per Hollywood da un paesino dell’Austria, che, tra un film e l’altro, è diventato una star, ha sposato una Kennedy e ha persino governato la California...
Certo, un po’ rigido (tipo che un’asse da stiro si muove con maggiore scioltezza...) lo è rimasto: ma più che gli anni (68 a fine mese) potè il ruolo. Perché Arnold Schwarzenegger torna, a 12 anni dall’ultima volta e ben 31 dall’inizio di questa fortunatissima saga, a giocare al robot: cyborg umanissimo (e non ancora arrugginito, almeno non del tutto) del quinto «Terminator». Una sorta di falso reboot che rilancia le ambizioni (ma sarà il botteghino ad avere l’ultima parola) della cine-serie portata al successo planetario da James Cameron, nel tentativo (lo stesso dei protagonisti del film) di modificare i connotati alla storia («non mi devi salvare, la musica è cambiata...») per resettarla e farle prendere un’altra strada. Spettacolare e «politico» nella sua ribellione alla dittatura tecnologica (la promessa diabolica di un mondo connesso permanentemente, che poi è già qui, è già questo...), «Terminator Genisys» salta senza paracadute dal 2029 al 1984 per rimbalzare in un più comodo e contemporaneo 2017: una serie di scarti temporali dove si può abbracciare anche un figlio che non si è mai avuto, mentre si cerca di garantire un futuro a sé e al mondo. L’action tiene, ma gli effetti sono vintage, l’aria è da b-movie, l’improbabile spesso oltre la decenza: e la densità malinconica dell’originale viene un po’ smarrita e dissipata nella voglia di fare casino. Per fortuna però Schwarzy (chiamato ancora una volta a proteggere Sarah Connor, che qui ha il volto di Emilia Clarke, superstar del televisivo «Il trono di spade», ancora acerba però per essere una credibile eroina cinematografica) porta in dote al film una salutare (il regista Alan Taylor in fondo aveva debuttato con una commedia, il gioiellino «Palookaville») auto-ironia: l’humor e la voglia di non prendersi troppo sul serio di chi ne ha viste parecchie e ne vorrebbe vedere (e fare) altrettante.

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Gli Avengers: il dream team del cinefumetto

«I guai tornano sempre». Un po’ come i supereroi. Che nemmeno fai in tempo a sederti che già stanno sparando da tutte le parti, quasi fossi finito in un videogame anni ‘80. Sì insomma, i preamboli stanno a zero: e le presentazioni sono finite da un pezzo. Qui giocano i Messi e Neymar del cinefumetto, mica le riserve: e se l’approfondimento psicologico è un po’ da bimbi minchia, pazienza. Vanno presi come sono, senza pensarci troppo: c’è un dio che gira sempre col martello (ha quadri da appendere?), un tizio che se si incavola diventa verde dalla rabbia, uno che corre più forte di Bolt. Insieme fanno un bel macello gli Avengers, non c’è che dire: ma è altrettanto vero che in questa seconda puntata dedicata al dream team della Marvel c’è più metallo, più acciaio che non carne, sangue e spirito. Colpa soprattutto di un cattivo interessante quanto una partita all’ultima giornata tra due squadre già retrocesse e ironico meno di un modulo per la dichiarazione dei redditi: ma anche di qualche idea vecchia (ci sono persino echi di «Terminator» e della sua rivincita delle «macchine») e di qualche eccesso di catastrofismo (le auto si ribaltano, i grattacieli crollano e i camion volano...) che rischia che la scorpacciata di spettacolo (super anche questo, certo che sì) si trasformi, se hai già fatto l’esame di terza media, in overdose.
Costato 250 milioni di dollari e girato in 4 continenti (tra cui alcune sequenze in Valle d’Aosta), «Avengers: Age of Ulton» costringe i nostri a battersi con un nemico che si sono creati da soli: un «errore di laboratorio» che potrebbero pagare molto caro. Il lui in questione in realtà è un’intelligenza artificiale che avrebbe dovuto proteggere il mondo: e invece prova a distruggerlo...
Solito mix (attentamente equilibrato) di azione e ironia, sguardi all’attualità (i civili come uniche e vere vittime della follia della guerra, i mercanti di morte, l’onnipotenza della scienza) e minacce apocalittiche, il film di Joss Whedon (imbottito di star: c’è anche James Spader che in motion capture dà vita al villain Ultron) celebra il gioco di squadra trovando però gli spunti più interessanti quando lascia che i suoi protagonisti si confrontino con i loro stessi fantasmi, con i rimorsi e i rimpianti: e con le proprie, più recondite, paure, col timore di fallire o di averlo già fatto. E’ uno spunto «alto», una via che però il kolossal Marvel percorre solo fino a un certo punto, nella riflessione di un’umanità segnata, ma capace di conservare una grazia anche nei suoi fallimenti. Ecco, lì c’era tessuto per creare l’arazzo: peccato che bisogna tornare subito a salvare l’universo.

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