Bertolucci, i sogni e la nostalgia dell’imperatore
Non sembrava preoccuparlo il destino del cinema, così come lo conosciamo: forse perché sapeva, in cuor suo, che qualcuno - come lui - i film, in qualche maniera, avrebbe sempre continuato a farli. E ci sarebbe sempre stato qualcuno che - come noi - avrebbe avuto voglia di vederli. «Non ho idea di cosa ci riserva il futuro - mi disse una volta -, forse un giorno le sale non esisteranno più: ma sono convinto che i film non moriranno. Magari li vedremo proiettati sul volto di chi amiamo». Qualcuno ieri ha scritto che Bernardo Bertolucci ci ha lasciati. Non sono d’accordo: credo piuttosto che, semplicemente, se ne sia andato. Ma ho la presunzione di credere che non ci lascerà mai. Non ci lasceranno i suoi film, le sue visioni, il suo modo, unico di impressionare la pellicola. Né ci abbandonerà la capacità di emozionarci nel rivedere Brando morire o la Sanda e la Sandrelli ballare. L’ho capito l’altro giorno, a Torino, durante il festival del cinema: guardando «Pretenders», l'ultimo film di James Franco, divo cinephile, uno a cui fanno la posta ragazzine che forse non hanno mai nemmeno visto un film di Bertolucci. Che però l'attore e regista hollywoodiano nel suo film cita in continuazione, così come Godard e Truffaut: giganti di quel cinema anni '60 che del cinema stesso cambiarono la morfologia, la grammatica, la sintassi. Il ragazzino di Baccanelli cresciuto ascoltando il padre Attilio dettare al telefono, a braccio, le recensioni alla «Gazzetta» scrittura gli amici di infanzia per «rifare» i film che ha appena visto: nella Parma che, faticosamente, semina sogni là dove poco prima c'erano le macerie della guerra, la campagna assomiglia a un enorme set. Scrive poesie, riceve premi, ma sceglie presto, ancora giovanissimo, il cinema. Forse perché ha già capito che è quel posto dove se «chiedi un treno te lo portano davvero». Nello sguardo del bimbo che si nasconde per vedere il maiale morire - il suo, primo, folgorante cortometraggio - c'è già la promessa di qualcosa di grande, la scoperta, violenta di uno stupore che forse è il medesimo di quello di un altro bambino, migliaia di chilometri e molti anni più in là, davanti a cui tutti si inginocchiano nella città proibita. Prima però c'è tempo di scambiare Pasolini per un ladro: gli chiude la porta in faccia, ma lui non se la prende. «Dici che ti piace il cinema, fammi da aiuto regista». Sul set, Bertolucci arriva dalla porta principale: iil film è «Accattone». da lì in poi si fa sul serio: c'è l'esordio con «La commare secca», solo apparentemente pasoliniano ma che in realtà già si distacca dall'amico-maestro. E' con «Prima della rivoluzione», girato a Parma, però che Bernardo diventa Bertolucci. Ha solo 22 anni, è sfrontato e incosciente al limite dell'arroganza e soprattutto incompreso: i critici italiani - che non ne comprendono il già limpidissimo talento - lo stroncano, i francesi però lo esaltano. Ancora oggi resta uno dei film più belli di sempre sul tormento di essere giovani: capace di parlare ai ragazzi di oggi con la stessa modernità con cui si rivolse a quelli di mezzo secolo fa. C'è chi lo consiglia di rimettersi seduto: lui invece insiste. E firma capolavori, personali e politici, come «Il conformista» e «Strategia del ragno». Per poi girare il film che cambia tutto, «Ultimo tango»: l'anteprima a Parma è per pochi, la saracinesca del cinema abbassata, il fumo di decine di sigarette che rendono quasi nebbiosa la fotografia di Storaro. «Ruppe tutte le regole», ricordò il maestro l'ultima volta che venne a Parma: il rogo, la condanna al carcere (con la condizionale), la privazione per 5 anni (che follia...) dei diritti civili. Più scandalosa la sentenza che non il film. Ma poco importa: il successo è globale, pazzesco. Solo in Italia lo vanno a vedere 15 milioni di persone: per capirci «Titanic» non è arrivato a 9... E' il momento che Bertolucci può tutto: lo stesso in cui decide di girare l'epopea padana e indimenticabile di «Novecento». Lo sguardo si fa epico, la storia privata diventa quella collettiva, comune. Si capisce già allora - mentre nella piccola capitale arrivano De Niro, Depardieu e Burt Lancaster - che Parma non potrà essere il suo ultimo approdo. L'orizzonte si allarga, le mete sono la Cina, il deserto, l'America. Arriva l'Oscar (unico italiano a vincere quello per il miglior film), ma Bernardo continua a ballare ostinatamente da solo: il suo cinema non ha paragoni, ha padri (rinnegati e non), ma non ha figli. E' rimasto sino all'ultimo il dreamer, il sognatore, degli inizi: cinefilo borghese e ribelle più forte persino della malattia che lo aveva confinato su una sedia a rotelle. Capace di rinchiudersi in una cantina per sparare Bowie tradotto da Mogol a tutto volume. Continuava a parlare del futuro, Bertolucci, a pensare a un altro film, a una nuova avventura: era l'ultimo maestro, ma il primo nella fila degli entusiasti. Un uomo capace di gesti e gentilezze imprevedibili: come quella volta che mi chiamò al telefono per ringraziarmi per quello che avevo scritto su sua madre, rosa bianca che aveva piegato, per sempre, il suo gambo. Diceva: «Il cinema è la nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai vissuto». Buon viaggio, imperatore.
Ultimo tango? Un film casto. Il pezzo che mio padre scrisse nel '73
E' tornato nelle sale per tre giorni "Ultimo tango a Parigi", il film più visto nella storia del cinema in Italia: uno dei capolavori di Bernardo Bertolucci, una pellicola che, come le streghe, mandarono al rogo. Avrei potuto scrivere un pezzo: ma davvero non sarebbe stato più bello e più "avanti" di quello che che mio padre scrisse 45 anni fa, quando il film uscì a Parma.
Chi fa politica non se ne abbia a male, ma l'avvenimento del giorno a Parma non è il Consiglio dei ministri, il C.C. del PSI, la fluttuazione della lira e neppure la frana di Citerna; bensì la prima del film Ultimo tango a Parigi del giovane regista parmigiano Bernardo Bertolucci. Quest'ultimo film gli ha dato celebrità internazionale, dopo che i precedenti – Nemo propheta in patria! – erano stati accolti con entusiasmo a Parigi e a Nuova York ma con appena tiepidi consensi nella più provinciale Italia. Ora, il morboso interesse che si è acceso attorno a Ultimo tango è probabilmente superiore ai meriti obiettivi del film, che pure non sono pochi e di tutto riguardo. Esso deriva, infatti, dalle vicende giudiziarie che hanno accompagnato l'uscita del film con il suo sequestro e il successivo processo con sentenza di assoluzione. Ciò significa che questo film intellettuale e raffinato, in origine destinato a pochi, sarà invece visto da molti, i quali accorreranno al suo richiamo per motivi diversi da quelli puramente estetici: e perciò – peggio per loro! – ne resteranno inevitabilmente delusi. Perché Ultimo tango a Parigi non è un film per tutti, ma un'opera destinata a un pubblico culturalmente preparato ed evoluto.
Il giudizio definitivo sul film resta naturalmente affidato al nostro critico cinematografico, il quale, come vuole la consuetudine di questo giornale e la prassi del buon giornalismo, è libero di esprimere le sue opinioni, quali che siano, anche se esse dovessero essere in contrasto con l'indirizzo del giornale. Qui, ci permettiamo qualche osservazione marginale e di costume.
Tanto per sgombrare subito il terreno da qualsiasi equivoco, dobbiamo dire che Ultimo tango a Parigi non è esattamente un film per educande o per abbonati alla «bibliotechina rosa». Al contrario, è un film molto forte, che contiene alcune sequenze alquanto scabrose e non propriamente liliali, debitamente vietate ai minori di 18 anni. Ma, subito dopo, va aggiunto che non è neppure il film che gli erotomani e i «guardoni» si aspettavano. Quest'ultima categoria di spettatori sarà molto più soddisfatta e stimolata da qualsiasi meschina decameronata o pseudo e volgare imitazione del Canterbury pasoliniano, mentre il film di Bertolucci – che impegna l'intelligenza – la lascerà certamente di sasso, come si usa dire.
L'ultima volta che vidi a Parma Attilio Bertolucci, padre di Bernardo (in quei giorni il film era sotto processo a Bologna), scherzosamente mi disse che dopo l'uscita del film del figlio a Parma, egli avrebbe dovuto nascondersi dietro gli occhiali scuri e un paio di baffi finti. Ebbene, dopo aver visto Ultimo tango a Parigi devo onestamente dire che Attilio Bertolucci può tranquillamente passeggiare per le vie del centro senza timore di essere segnato a dito dai passanti. A parer mio, infatti, Ultimo tango, pur nella sua crudezza e nella sua crudeltà, è un film romantico e innocente, oserei quasi dire: casto.
Lo so: il discorso su questa materia si fa insidioso e difficile, e la discussione può diventare incandescente. Ma non c'è dubbio che questa volta ci troviamo di fronte a un prodotto dell'intelligenza e di una raffinata cultura. Il film di Bertolucci, tenero e crudele al tempo stesso, è un consommé di materia grigia. Dentro, ci trovate di tutto: Bacon nei titoli di testa, Proust in quella Parigi dall'aria così smagata e sottile, Camus nel ritratto alla parete della stanza d'albergo abitata da Massimo Girotti, ecc. ecc. Poi c'è Baccanelli, con i ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza dell'autore; c'è il clima padano delle poesie di Bertolucci padre; c'è il Cine Club (non a caso il salvagente buttato in mare reca l'insegna de L'Atalante che è il titolo di un famoso film di Jean Vigo); e c'è il mito hollywoodiano del cinema degli anni 30, così caro ad Attilio Bertolucci critico cinematografico della Gazzetta di Parma (di cui il sottoscritto fu per alcuni anni il modesto «vice» e poi l'indegno successore) con quei riferimenti a Carole Lombard, a Joan Crawford e non so a chi altre attrici dell'epoca. Il film meriterebbe di essere rivisto per meglio apprezzarne lo spirito e soprattutto per meditarne il dialogo, che è parte essenziale dell'opera.
Detto questo, veniamo al nodo della questione. La Costituzione della Repubblica italiana, all'art. 21, dice che «sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume». Ma che cosa dobbiamo noi oggi intendere per «buon costume»? E quali sono i limiti dell'offesa e dell'oltraggio al pudore, fatta salva la tutela dei minori? Tutti noi possiamo oggi constatare con i nostri occhi, passeggiando per le strade, guardando le copertine delle riviste esposte nelle edicole o andando al cinematografo o a teatro, che in questi ultimi anni in Italia, come nel resto del mondo libero, la libertà di espressione del pensiero attraverso i mezzi visivi ha subito una evoluzione in senso liberale, che fino a qualche anno fa era addirittura impensabile.
Pertanto, il problema è di stabilire: che cosa è osceno, quando lo è e quali sono i limiti di oscenità accettabili ai maggiori o ai minori di 18 anni? E a questo punto, mentre il concetto di offesa al pudore si restringe sempre più (come fa fede la coraggiosa sentenza dei giudici di Bologna che hanno pienamente assolto Ultimo tango a Parigi dall'accusa di oscenità), ciascuno di noi deve affidarsi alla propria personale sensibilità. Con una doverosa avvertenza: che la legge non punisce come oscena l'opera d'arte, in quanto essa è tale. E qui, si dovrebbe aprire un altro discorso per chiarire quando un'opera è d'arte oppure no. Ma ormai il discorso si è fatto fin troppo lungo. Per cui, lo rimandiamo a un'altra volta.