Carnale e laico: c'era una volta Il racconto dei racconti
Questo è un film spericolato. Spericolato nell'assunto, nell'approccio, nell'idea. Nel prendersi tutti i rischi, che nemmeno Vale quando fa a sportellate con Marquez; nel coraggio (e nell'orgoglio) di essere trasversale (e uguale a niente), nella carne disfatta e nauseabonda, nei desideri malevoli e proibiti.
Nel ribellarsi alla «sindrome da bilocale» (due stanze, un cucinino e tanto piangersi addosso) da cui è afflitto molto cinema (non solo italiano) attuale, nel sedurre e nel venire sedotto, nel suo essere immaginifico eppure – sorprendentemente - concreto.
Matteo Garrone rilegge le fiabe napoletane di Giambattista Basile (pubblicate postume nel '600) e fa davvero dell'universo di quell'autore che ha anticipato (e ispirato) i vari Grimm e Andersen «il sogno di un deforme Shakespeare partenopeo» (come lo definì quell'essere speciale che si chiamava Italo Calvino), girando un film fisico e laico, labirintico e visionario, vorace e stravagante, sontuoso e scorticato: una favola nera dove ad atmosfere fantasy, ferocemente fiabesche, corrispondono ossessioni assolutamente contemporanee, debolezze universali e moderne.
Audace nel percorrere a ritroso il suo abituale itinerario (non partendo più da una dimensione reale, come nei suoi precedenti film, per poi trasfigurarla con uno sguardo intinto nel fantastico, ma asciugando al contrario la favola per coglierne gli aspetti più verosimili e moralmente «urgenti»), il regista di «Gomorra» e «Reality» recupera certo iperrealismo macabro che aveva fatto la fortuna de «L'imbalsamatore» cogliendo, non senza frequenti incursioni nell'horror, la bulimica violenza del desiderare: il meraviglioso si mescola così al grottesco, il magico all'ordinario.
Una regina disperata perché non riesce ad avere figli, un re che alleva una pulce come se fosse un animale domestico, un altro sovrano, dissoluto, che si invaghisce della voce di una vecchia credendo che appartenga a una bellissima fanciulla: intrecciate insieme tre delle fiabe de «Lo Cunto de li Cunti» (da cui pescò anche Rosi per «C'era una volta» con la Loren), Garrone si concentra soprattutto sulle figure femminili, una per ogni storia, tutte a suo modo ingannate e tutte a proprio modo, anche nel loro essere vittime, crudeli.
Il traguardo (da raggiungere a qualunque costo) della maternità, il falso mito dell'eterna giovinezza (e delle «cure» per ottenerla), lo scontro generazionale, la cecità del potere (vittima delle sue stesse meschinità), la paura di restare soli: serviti su un vassoio magico temi presenti, urgenti, universali, il 47enne regista romano li traduce figurativamente in una visione colta, più carnale che incantata, con continui e mai banali riferimenti (molto arriva dai Capricci di Goya, a cui anche Parma anni fa dedicò un'interessante mostra) pittorici.
Un lavoro complesso e potente nelle inquadrature come anche nella scelta delle location (c'è pochissimo di ricostruito, nonostante alcuni luoghi sembrano davvero usciti da una fiaba) e nella realizzazione degli effetti speciali, riportati a una dimensione artigianale (e non più digitale), permettendo così al film di raggiungere un'insperata autenticità anche nel mostrare l'artificio.
Girato in inglese, ricco di star (da Salma Hayek, la più provata dalla riprese, a Vincent Cassel, da John C. Reilly a Toby Jones, passando per la nymphomaniac Stacy Martin e la partecipazione, nel ruolo di due circensi, di Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini), costato 12 milioni di euro (Garrone lo ha prodotto insieme a Jeremy Thomas, che portò al successo «L'ultimo imperatore» di Bertolucci), «Il racconto dei racconti» (in concorso al Festival di Cannes) ha dimora dove lo stupore ha ancora un senso, nelle pieghe di un cinema fatto per chi non si accontenta.