Little sister: quelle piccole donne in salsa di soia in un mondo di orfani
E' il come più del cosa o del perché. E' il soffio che crea il vetro, che poi è materiale trasparente, sincero, indifeso alla vista, autentico al tatto. E' un cinema così, gentilissimo al tocco, che ricuce con ago e filo le crepe dell'anima, seguendo le tracce sotterranee di traumi antichi e debolezze mal celate, quello del giapponese Kore-eda: come un oggetto fatto a mano, con cura e delicatezza, che ci senti dentro l'affetto di chi lo ha pensato, di chi lo ha creato.
Narratore intimo e mai prevaricatore delle dinamiche familiari, il 53enne regista di <Father and son> racconta in <Little sister> (in concorso a Cannes lo scorso maggio e poi vincitore del premio del pubblico a San Sebastian) la storia di tre sorelle che, alla morte del padre che non vedono da anni, conoscono la sorellastra acquisita: una timida adolescente che decidono di accogliere nella loro casa...
Se qualcuno ha voluto trovare una dimensione favolistica nella vicenda (tratta da una graphic novel) di questa ragazzina, accolta e benvoluta dalle tre sorellastre quasi fosse una Cenerentola al contrario, in realtà, quello dell'autore giapponese è più di tutto un film al femminile ricco di sensibilità, dove la vita viene presa a piccoli sorsi e anche l'assenza più pesante (il padre delle quattro sorelle è il classico elefante nella stanza, o se preferite il convitato di pietra) non è mai urlata, ma solo sussurrata. Il film (ottimo rimedio naturale per tonificarsi dopo le indigestioni natalizie di cinepanettoni e affini) parte piano e poi via via cresce, toccando le leve giuste, addirittura sedimentandosi nel tempo, lasciando un gusto buono anche molti giorni dopo la visione: lettore attento dei paradossi e delle prove del quotidiano, Kore-eda accarezza con agrodolce umanità le tenui ma non invisibili fragilità delle sue piccole donne in salsa di soia, celebrando la sorellanza (e il valore del ricordo) come antidoto a un mondo dove è sin troppo facile sentirsi orfani.