Una notte di 12 anni: dalla parte di chi non si arrende
<Gli unici sconfitti sono quelli che si arrendono>.
Un gol segnato senza pallone, una partita a scacchi senza scacchiera, una vita senza vivere: e l'anelito, ansimante e improvviso, della libertà che soffia sulle note di una versione da brividi di <Sound of silence>. E' un film ribelle e triste, logoro e intero, lungo 4mila giorni, bello come quando esci dalla galleria e ci trovi il sole, <Una notte di 12 anni>: che è la storia vera e sofferta, ma mai priva di ostinata e orgogliosa speranza, di José Alberto Mujica, il combattente rivoluzionario che divenne presidente (a 800 euro al mese...) del suo Uruguay, il Paese che, divorato dalla dittatura, dal '73 all'85 imprigionò lui e i suoi compagni di lotta, cercando inutilmente di piegarli attraverso una detenzione disumana.
Un film – diventato in fretta un piccolo caso alla Mostra di Venezia dove venne presentato, con grande successo, nella sezione <Orizzonti> - che va ben oltre il filone carcerario (dalle cui regole canoniche si distanzia sia per la sensibilità che per il tono), non solo per la forte dimensione politica, ma soprattutto per gli inaspettati sprazzi di poesia (il detenuto che scrive lettere d'amore per i suoi aguzzini incapaci di trovare le parole giuste per le loro belle, i due prigionieri che comunicano nonostante il muro che li separa...), per gli squarci di umorismo che aprono varchi nella costruzione inevitabilmente claustrofobica di una pellicola resistente e civile che non ha paura di mostrare il volto grottesco dell'autoritarismo, trovando nel paradosso una nuova forma di indignazione, di sdegno.
L'annullamento della personalità, gli spazi che si riducono fino a implodere, l'isolamento che conduce alla follia: elevate immaginazione e memoria a uniche vie di fuga possibili, <Una notte di 12 anni>, diretto dal 43enne Álvaro Brechner, esalta dignità e forza morale di personaggi che sanno quale croce portano. Resta solo da capire se noi conosciamo il peso della nostra.