Favolacce, i bambini ci guardano
«Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata». È doloroso ammetterlo: ma non c'è film che racconti meglio il momento (e il Paese) di questo. Che coglie perfettamente l'ordinaria mostruosità della nostra epoca, di cui non risparmia nemmeno i dettagli, fossero anche i denti storti, la cellulite, il sudore. Scattando la fotografia sghemba di un disagio profondo di cui solo i bambini sembrano avere reale consapevolezza, sembrano in grado di leggere e decifrare, senza d'altro canto poterlo (a differenza di adulti deludenti nella loro orrenda banalità) accettare: vittime consapevoli di un mondo che sanno essere al collasso e senza scampo. È bello da far paura, ma paura veramente, «Favolacce»: il film impietoso e nichilista con cui i fratelli D'Innocenzo riempiono le pagine bianche di un diario interrotto ascoltando il battito periferico e marginale di un'estate calda e maledetta. Cinema disperatamente coraggioso e antinarrativo che si avventura in maniera originale (complice anche la voce off di Max Tortora) tra le villette tutte uguali di un improvvisato e fasullo benessere, dove un'umanità depressa, annoiata, rancorosa, lascia che il tempo passi, tra piscine gonfiabili, esistenze precarie e Sally, nata prematura che doveva chiamarsi Sara... Un film corale, d'insieme, premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino, attraversato da una tensione sotterranea eppure palpabile che i D'Innocenzo, bravissimi anche nel nascondere, nel non mostrare, riempiono di idee di regia, dando prova, dopo l'ottimo esordio de «La terra dell'abbastanza» (recuperatelo se potete), di grande consapevolezza e maturità nel linguaggio, alla ricerca costante di punti di vista alternativi quanto e più del loro cinema, nell'alternanza continua di primissimi piani e di inquadrature dove al contrario mettono distanza tra sè e l'azione. Uno spaccato antropologico crudo e potente di un malessere condiviso a cui è difficile persino dare un nome, là dove il degrado, figlio dell'ignoranza e dell'invidia, è soprattutto etico. E nutre la tragedia di un doppio rifiuto: quello di diventare adulti e quello, anche più grave, di comportarsi come tali.