The Brutalist, un capolavoro visionario e monumentale: il film dell'anno
Avvertenze per gli spettatori. Punto primo: questo film dura tre ore e 34 minuti. Punto secondo: non spaventatevi. E prendetevi la serata libera perché «The Brutalist» è il film più bello che vedrete quest'anno.
C'è, infatti, una continua, costante, ricerca della bellezza, un flusso di energia inedita e avvolgente, uno sguardo vergine e non ancora corrotto dalla retorica o dalla prudenza, nel modo sinfonico, ampio, audace e ricchissimo di girare del 36enne Brady Corbet, già attor giovane di grandi speranze e ora autore di culto (specie grazie all'esordio, «L'infanzia di un capo») che firma una clamorosa epopea umana, un film maestoso e «monstre» (non solo nella durata) che conosce il senso delle proporzioni e della grandezza.
Girato in 70 millimetri, il formato «bigger than life» che in questo caso non dona solo maggiore nitidezza ma esalta la forza della messa in scena e rende la cinepresa ancora più partecipe alle vicende di un protagonista con cui ha una vicinanza non solo fisica ma anche empatica, l'opera terza di Corbet, potente sin dalla concezione, racconta oltre 30 anni della vita dell'ungherese László Toth, geniale architetto ebreo che, sopravvissuto al campo di sterminio, emigra negli Stati Uniti. Dove inizialmente fa la fame, ma poi, grazie all'incontro con ricchissimo imprenditore, comincia a lavorare a un progetto ambizioso e gigantesco...
Divisa in capitoli l'esistenza del suo personaggio immaginario (ma emblematico), il cinema per sognatori e visionari di Corbet dopo un'overture straniante in cerca ansiogena di luce, coglie - tra piani sequenza emotivi, un lavoro costante e ricercato sulla messa a fuoco e una scelta musicale intelligente e mai scontata che interagisce direttamente con la vicenda -, il trauma del XX secolo, facendo di «The Brutalist» non solo un film «limite» e monumentale sul sogno americano (e la sua ipocrisia) e sulle maschere di un Paese fintamente accogliente ma in realtà classista e xenofobo, che finge di invitarti a sedere alla sua stessa tavola imbandita ma che finisce immancabilmente per fotterti, ma anche una non scontata riflessione sul senso stesso della creatività, sulla solitudine dell'artista, ma pure sul potere inimmaginabile di pensare un altro modo e un altro mondo.
E come in un moderno «Faust», il regista (Leone d'argento a Venezia) scolora l'epoca della fiducia e delle possibilità nell'ossessione individualista che rischia di portare alla follia, mentre il capitalismo divora l'anima di chi agli altri e a se stesso antepone il proprio obiettivo. E il proprio mausoleo.
Un film gigantesco, «The Brutalist» che, girato anche in Italia (a Carrara, tra scenari memorabili, e a Venezia), trova in Adrien Brody (peccato doppiarlo: è strepitoso nello «sporcare» il suo americano con l'accento ungherese che appartiene alla madre e alla nonna) un interprete eccezionale: che di certo dopo il Golden Globe meriterebbe uno dei dieci Oscar a cui questo film magnifico e «impossibile» - a livello sia estetico che produttivo - è candidato.