Recensione, Festival, 2023 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2023 Filiberto Molossi

Foglie al vento, la favola romantica e cinefila di Kaurismaki

Il calendario recita 2024, e pazienza se, così come i telefoni, le radio sono d'epoca: appena fai per accenderle, gracchiano tutte la stessa cosa. L'Ucraina, la Russia, gli attacchi, i morti: «Maledetta guerra», chiosa la protagonista. Anche lei, intimamente lo sa: se qualcosa ci salverà sarà solo l'amore.

E' una deliziosa favola romantica, chapliniana sino al midollo, lieve e ultracinefila (le citazioni, da Godard, omaggio al maestro morto mentre erano in corso le riprese, a «Rocco e i suoi fratelli», passando per Jarmusch, si sprecano e sono sempre a fuoco, affettuose, ispirate) quella che Aki Kaurismaki, un tizio che vorresti sempre accanto in un bar o in un cinema, ha portato, come un dono, in questo altrimenti sciatto Natale, conquistandoci per l'ennesima volta con quel suo tono surreale da cinema muto, il melò stralunato, l'ambientazione vintage, lo stile riconoscibilissimo, inconfondibile.

Una commedia happysad, sorretta dalla solita ironia rarefatta ma sempre efficacissima, «Foglie al vento» (Premio della giuria a Cannes, due candidature ai Golden Globes, nella short list degli Oscar) che, sulle note di brani celebri cantati in finlandese (anche «Mambo italiano»...), racconta dell'incontro tra due solitudini: lui, depresso perché beve («e allora perché bevi?». «Perché sono depresso»), perde un lavoro dopo l'altro, lei, impiegata al supermercato, vive in un piccolo appartamento: si incontrano, si perdono, si ritrovano...

Nel mezzo c'è tanto cinema (tenue, divertente, poetico, mai banale) e altrettanto amore appassionato per l'umanità, meglio se fallata, irregolare, depressa, disfunzionale, tenera. E un regista, che nella vita ha fatto anche il lavapiatti e il palombaro, che ci mette una leggerezza che appartiene a pochi se non a pochissimi e la malinconia di chi, nonostante tutto, ha ancora fiducia nel domani. Che è quel posto dove vai a piedi, mano nella mano e con un cane che si chiama Chaplin.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Quel cinema che accoglie: Kaurismaki mostra L'altro volto della speranza

Siamo tutti stranieri, apolidi, esuli davanti a un film di Aki Kaurismaki, narratore sensibile e ultra malinconico di umane vicissitudini, regista geniale, bevitore impenitente, pigro senza remore (non necessariamente in quest'ordine): diversi in partenza, lontani, convinti delle nostre ragioni più che consapevoli dei nostri torti. E ogni volta succede la stessa cosa, si ripete la medesima magia: quel cinema ci accoglie, ci dà riparo, ci offre, se non una tregua, un rifugio. Al secondo capitolo della trilogia dei migranti (o dei porti, se preferite), Kaurismaki trasforma la solidarietà che animava il bellissimo <Miracolo a Le Havre> (miglior film dell'anno per la giuria della <Gazzetta di Parma> nel 2012) in fratellanza, raccontando, a modo suo, la favola amara dell'integrazione, dove si nasce musulmani e si muore ebrei, perché l'odio, oltre che cieco, è soprattutto, tragicamente, stupido.

Sulle note di un blues da reduci (là dove la terra non mostra misericordia per il contadino), il 60enne autore finlandese mette la sua cifra singolare e inconfondibile – fatta di facce da poker, fotografia anti naturalistica e desaturata, interni scarni e riconoscibili, dialoghi rarefatti (il primo è dopo 7 minuti: Dybala ci ha impiegato meno a segnare al Barcellona...), fredda e surreale ironia – al servizio di un discorso politico urgente e non procrastinabile, sciogliendo in forma poetica i nodi di un'attualità complessa, estraniandosi dalla bagarre rumorosa delle ideologie e dalle facili reazioni di pancia per cogliere piuttosto ingiustizie e insofferenze del presente nell'attraversare la solitudine quasi lunare di un mondo che ha ormai ben poco da ridere.

Film morale (ma mai retorico), minimalista e infine toccante, <L'altro volto della speranza> (Orso d'argento all'ultimo Festival di Berlino) segue le vite parallele di un profugo siriano che arriva, dopo averne passate mille, in Finlandia e di un rappresentante di camicie che, mollata la moglie, decide di rilevare uno strampalato ristorante dal menu non particolarmente invitante. Le loro strade, ovviamente, sono destinate a incrociarsi: e l'incomprensione e diffidenza iniziali lasciano presto il posto a fiducia e rispetto...

Molto più interessato all'effetto che non alla causa (<non so chi ha lanciato il missile>, dice il rifugiato, spiegando come la sua famiglia sia stata distrutta in un istante), certo che la guerra non faccia vincitori né vinti ma solo vittime, Kaurismaki porta il suo contributo all'emergenza profughi, schierandosi una volta di più dalla parte di chi tende una mano. E di chi, quella mano, la stringe, rivelando, con sintesi perfetta e silente (<in un film più si parla meno si dice>), l'odissea esistenziale di quel popolo senza nome che, fuggito dall'orrore, si ritrova bloccato in una terra di nessuno, respinto da una burocrazia che interpreta l'oggi solo attraverso assurde statistiche, costretto a fingere di sorridere perché non c'è spazio – in questo mondo - per i malinconici. Un'indifferenza e un rifiuto a cui il regista oppone, con la solita nota, paradossale, comicità (tra sushi con le aringhe, monologhi alla Shylock e la moda incontenibile dei ristoranti etnici...), la fede nell'utopia di un soccorso reciproco, celebrando l'umanità non scontata della comunità di stralunati, irregolari e emarginati a cui, come i suoi personaggi, sente di appartenere. Gente a cui basta uno sguardo o una sigaretta per capirsi: costretta a sedersi dalla parte del torto solo perché tutti gli altri posti erano già occupati.

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