2015, Recensione Filiberto Molossi 2015, Recensione Filiberto Molossi

A bigger splash: nella piscina di Deray, Guadagnino rischia di affogare

Corpi impazienti sotto il sole di Pantelleria, tra Verdi e i Rolling Stones, Bertolucci e Antonioni (e Rossellini...), un film cult (e hot, per i tempi) di Deray (<La piscina>, di cui questo è un <non remake>) e i quadri di Hockney: mentre lo scirocco soffia incessantemente sulla pelle del desiderio e le rockstar restano senza voce. Un'isola, un'estate, la ricotta, i migranti, qualche vecchio vinile: e due uomini e due donne (una grande cantante e una lolita) - strumenti di seduzione, armi non convenzionali di una guerra non dichiarata - che faticano a comunicare o che forse hanno solo perso la voglia di farlo.

Fischiato all'ultima Mostra di Venezia nella proiezione riservata ai giornalisti, nato per dividere, <A bigger splash>, il film che Luca Guadagnino ha realizzato dopo il successo americano di <Io sono l'amore>, è una pellicola dai molti padri, girata con personalità forte, un'idea di cinema non sottomessa e stile rock, sexy, da un regista che però ci crede molto (ma molto...) e rischia di confondere l'ambizione con la presunzione, buttando via una storia di pulsioni vecchie e nuove nell'ultima mezz'ora quando l'energia e l'elettricità della prima parte cala e l'intreccio, nonostante non pochi virtuosismi, si sgonfia. 

E' un film che si piace troppo sin da subito però <A bigger splash>, mosso, in questa sua rappresentazione, ironica e insieme drammatica, delle <politiche del desiderio>, più dal <Falstaff> che da Mick Jagger: Guadagnino sa fare parlare gli spazi, lavora bene sui corpi, ma resta in fragile equilibrio tra facili simbolismi e personaggi (il carabiniere) inutili o sbagliati. E il cast super cool (in cui Ralph Fiennes gigioneggia alla grande), alla fine, sembra divertirsi più del pubblico.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Timbuktu: quel gol all'integralismo nella partita senza pallone

Il cinema ha un potere strano: e segreto, e indecifrabile. E misterioso, anche. Ti dice con un semplice movimento - come una carezza invisibile che ti inumidisce gli occhi e ti gratta il respiro -, il perché e il percome delle cose. Che puoi sbatterci la testa a forza di leggere saggi su saggi, ascoltare tg, dibattere sui social teorie da bar: ma poi vedi dei ragazzini correre sulla sabbia e capisci tutto. La follia senza fondo della jihad, il massacro di Charlie Hebdo, il non sense di un fanatismo persino patetico nella sua crudele brutalità. E’ tutto lì, in una sequenza, bellissima davvero: quella dove - sapendo che chi viene trovato a giocare a calcio sarà punito per la legge islamica con 20 frustate - un gruppo di ragazzini inscena un’emozionante, spettacolare, partita senza pallone. Tackle, cross, tiri in porta. E a qualcuno scappa pure di sorridere: la mimica della resistenza, lo schiaffo, muto, all’orrore. 
E’ un film riuscito, ma soprattutto importante ed emblematico nella sua drammatica attualità, raccontata con un’urgenza che coglie anche la portata paradossale della tragedia, la fatale stupidità del fondamentalismo, «Timbuktu» dell’africano Abderrahmane Sissako, feroce eppure lirico nel denunciare la follia dell’integralismo islamico che sta schiacciando il Mali (e non solo...). L’antica Timbuktu viene invasa e sorvegliata a vista da un gruppo di fanatici armati di mitra. Da un giorno all’altro è proibito tutto: ascoltare musica, fumare, telefonare in strada. Le donne devono portare i guanti e non possono frequentare uomini, se entrambi non vogliono finire lapidati... «Dove è Dio in questo?», si domanda uno dei protagonisti. A chiederselo è anche il regista, nato in Mauritania e poi emigrato in Francia, che, mentre il seme della violenza contamina gli ultimi paradisi rurali e pacifici della fascia sub sahariana, gira un film intimo e politico (oltre che premiatissimo: nomination all’Oscar a parte come miglior lungometraggio straniero, ha fatto incetta di César, l’Oscar francese, vincendone ben 7, tra cui il premio a migliore film dell’anno) capace di toccarci con intrinseca e poetica verità. Come quando, per l’appunto, omaggiando «Blow up» di Antonioni, corre dietro a un pallone che non c’è: geniale sberleffo a chi vorrebbe sottomettere e uccidere anche la fantasia. Ma sa che quella partita, adesso, la stiamo giocando tutti.

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