2017, Recensione Filiberto Molossi 2017, Recensione Filiberto Molossi

Dunkirk, la Storia siamo noi

E' girato interamente in pellicola (sì, quella che nessuno usa più), in 65 millimetri, nel formato Imax (alla massima risoluzione) con 1.500 comparse e oltre 60 navi vere, in spazio aperto, dove anche la Storia, per quanto sia di per sé già enorme, monumentale, diventa subito epopea, epica, esempio. E' pensato in grande, eppure (per contrasto geniale tra spirito e concezione) è un film intrappolato, chiuso, messo all'angolo: prigioniero di una passerella che porta al nulla, stretto nell'abitacolo scomodo di un aereo, nascosto nella pancia di metallo di navi squarciate dal sibilo dei siluri. In quel preciso, maledetto, momento: che è adesso, che è sempre. Perché sia chiaro, nessuno si chiami fuori: siamo tutti lì, uno accanto all'altro, su quel pontile. Ad aspettare un miracolo, un segno, una svolta. Umanità indifesa, col nemico alle spalle e il mare di fronte: nella grande attualità di naufragi, nell'incertezza di un'esistenza perennemente minacciata e comunque esile, fragile, appesa. Là dove si è eroi anche senza indossare una divisa: perché <non possiamo sottrarci: abbiamo un lavoro da fare>.

E' il 1940: 400.000 soldati per lo più inglesi si ritrovano inchiodati sulla spiaggia di Dunkerque, in Francia. Casa è appena al di là dell'orizzonte, ma sotto il fuoco dei nazisti sembra irraggiungibile. C'è un'unica speranza: una clamorosa evacuazione via mare con l'aiuto delle imbarcazioni civili...

Terra, acqua, cielo: diviso in tre movimenti, su tre piani e condotto attraverso tre storie contigue e contemporanee, destinate (in una gestione affascinante della relatività dello spazio e del tempo tipica del maestro di <Inception> e <Interstellar>) a incontrarsi, <Dunkirk>, il bellissimo film di Christopher Nolan che di fatto apre la stagione cinematografica 2017-2018, batte sempre e solo su una nota, quella dell'angoscia (martellante e implacabile la colonna sonora di Hans Zimmer), alzando il volume dell'ansia nel mondo in cui nessuno è più al sicuro, dove tutto e tutti sono un bersaglio sotto il tiro di un nemico invisibile, senza faccia. Paura, altruismo, tragedia, caos, morte, coraggio, orgoglio, vergogna: nel cinema di Nolan non c'è posto per i vincitori, non si fanno prigionieri. Ma non c'è disonore in una fuga che, sulla via del ritorno, trasforma (come in <Apollo 13>) un fallimento in un successo. Il resto è sabbia, dolore, vento: quello che sferza i volti di un grande cast (da Kenneth Branagh a Mark Rylance e Cillian Murphy, passando per il <deb> Harry Stiles degli One Direction e dal migliore di tutti, Tom Hardy, che recita solo con gli occhi), chiamato a dare conto del meglio e del peggio dell'umanità.

Dedicato <ai nostri figli e nipoti ancora ostaggi di un mondo tra estremismi e barriere>, <Dunkirk>, spettacolare e potente sin dalle prime sequenze, scappa ma non retrocede, subisce ma non si arrende. Per una volta, <sopravvivere è abbastanza>. Anzi, è tutto: l'unico modo per ricominciare, resistere, provare a credere ancora in un domani. Che possa spazzare via l'odio di ieri ma cancellare anche le inquietudini e i tormenti dell'oggi.

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2015, Recensione Filiberto Molossi 2015, Recensione Filiberto Molossi

The martian: se Robinson Crusoe incontra Sofocle e gli Abba

E' un misto tra <Robinson Crusoe> e il <Filottete>, ma con le canzoni degli Abba. Sofocle, Defoe e la disco music nello stesso film? Beh, se hai fatto <Blade runner>, lanciato la saga di <Alien> e reinventato un genere con <Il gladiatore>, <forse> te lo puoi anche permettere... Gira intorno al pianeta uomo – e alle sue mille risorse -, <Sopravvissuto-The martian> (il titolo italiano era proprio necessario?), il fanta kolossal ingegnoso ed emozionante con cui il veterano Ridley Scott suggella l'incontro tra space odissey e cine-survivor, regalando a un astronaufrago del terzo millennio l'eterno mito della frontiera, qui nelle vesti, inospitali assai, di un irrespirabile pianeta color ruggine.

Un po' <Cast away> e un po' <Apollo 13>, umanista fino al midollo e marchiato dal sacro fuoco dell'ottimismo (e della fiducia: in se stessi prima di tutto), <The martian> è un inno senza deroghe (né incertezze) al coraggio e alla volontà, là dove la vita è più forte della morte e non esiste deserto – nemmeno quello della solitudine – che non si possa attraversare.

Il botanico Mark Watney (Matt Damon, in un'interpretazione molto empatica) viene abbandonato su Marte durante una missione della Nasa andata storta: i suoi compagni lo credono morto, ma in realtà non è così. Quando si risveglia – solo, con pochi viveri e incapace di comunicare con la Terra – dovrà dare fondo a tutte le sue conoscenze per sopravvivere.

Usa un crocifisso per accendere il fuoco, produce l'acqua grazie a una formula chimica, si serve dei suoi escrementi come fertilizzante; e se il ketchup è finito, niente drammi: c'è pur sempre il vicodin... Quanto <Interstellar> era filosofico, tanto <The martian> è pratico, quanto quello rifletteva sul senso del tempo e sulle sue trappole metafisiche, tanto questo vive un giorno per volta pensando pragmaticamente come portare a casa la pellaccia. Fatto del suo astronauta un emblematico eroe positivista che non include la resa tra le proprie opzioni, Scott celebra, in un film spettacolare e divertente (sì, avrebbe potuto essere più intimista, più interiorizzato: ma se spendi oltre 100 milioni di dollari cerchi pure di riprenderli...), la forza (anche morale) dell'individuo, l'all american boy che non può (culturalmente) darsi per vinto. Non prima, almeno, di tornare a casa (che, non mi stanco di ripeterlo, è un concetto alla base dell'identità a stelle e strisce): e di compiere un viaggio che, inevitabilmente, è anche dentro di sé.

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