2024, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2024, Festival, Recensione Filiberto Molossi

La zona d'interesse, l'orrore della porta accanto

Questo film è un rumore. Continuo, instancabile, disturbante. Un ronzio sordo, in sottofondo: come un tarlo che divora la coscienza. È un suono inizialmente indecifrabile, poi sempre più chiaro: è il rumore dell'orrore. Quello della porta accanto. A dieci anni da «Under the skin», cult che lo impose all'attenzione del mondo, l'inglese Jonathan Glazer, cineasta per definizione inclassificabile, porta sullo schermo «La zona d'interesse», il romanzo omonimo di Martin Amis, raccontando, complice un'idea potentissima e audace, la vita ordinaria e a tratti idilliaca dei vicini di casa dell'inferno. Ossia Rudolf Höss e la sua famiglia: e la loro grande casa, una villa con un bel giardino, le stanze sempre in ordine, domestiche e baby sitter. E, dall'altra parte del muro, Auschwitz. Il campo di sterminio dove ogni mattina Höss si reca al «lavoro»...

Fortissimo sin dall'inizio, con quel buio infinito dei (non) titoli di testa, terribile e spiazzante, «La zona d'interesse», candidato a 5 Oscar, già vincitore del Grand Prix a Cannes. non racconta solo la banalità, ma anche la quotidianità - e l'indifferenza - del male. I dolci, le ricche colazioni, le feste: le donne parlano di moda, i mariti di forni crematori, E mentre il fumo nero impesta l'aria, i bambini giocano ai carcerieri. Non accade, in tutto il film, nulla di «sensazionale»: e questo, se possibile, lo rende ancora più agghiacciante. più «insopportabile».

L'orrore resta fuori dall'inquadratura, è un'eco, una traccia: se non fosse per la cenere che si deposita (e viene velocemente rimossa) nel giardino, forse diresti (e qualcuno ancora, maledetto, ci prova) che non è accaduto niente... Glazer (che ha nella Sandra Hüller di «Anatomia di una caduta» ancora più che nel protagonista Christian Friedel, il volto finale) maneggia con cura materiale esplosivo, privilegia piani sequenza a macchina ferma, utilizza il concetto di spazio non solo come astrazione ma in senso etico e politico: e gira un film bellissimo e straniante sul visibile (e sulla «memoria» del visibile) e su ciò che è possibile (o ha ancora senso) mostrare, là dove la normalizzazione del genocidio oggi, 80 anni dopo, ha il suono di un aspirapolvere. Monito non strumentale di un buio che non fa parte del tempo ma dell'uomo.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Remember: il thriller coi capelli bianchi che ricorda con rabbia

Ricorda con rabbia. E' pensato come il più classico dei revenge movie (i film sulla vendetta), ma - in un mondo di fantasmi dove l'unico vero nemico è l'oblio -, usa il cinema di genere  per riflettere sul dovere e sull'obbligo della memoria, sulla necessità che quello che è stato non svanisca nelle pieghe profonde dei <non so> e dei <non ricordo>.

Sparge il presente di interrogativi etici, senza usare troppo sfumature, ma mettendosi in viaggio su una strada accidentata, costellata da odio e compassione, <Remember> (un titolo che è un imperativo), il film con cui il canadese di origine armena Atom Egoyan riapre la ferita indelebile dell'Olocausto in un percorso (anche interiore) dove non c'è condanna peggiore di quella di vivere nella menzogna. Magari finendo col credere che sia la verità.

Un anziano sopravvissuto ai campi di concentramento, dopo la morte della moglie scappa dalla casa di riposo per realizzare, istigato da un amico, un ultimo <desiderio>: uccidere l'aguzzino nazista che ad Auschwitz sterminò le loro famiglie...

Dopo molte prove appannate, Egoyan, pure restando lontano dalle sottigliezze narrative di film come <Exotica> e <Il dolce domani>, realizza con rigore (partendo là dove cominciava anche <This must be the place> di Sorrentino) un  convenzionale ma teso thriller coi capelli bianchi, che ha la sua maggiore singolarità nell'offrire il ruolo del killer vendicatore a un ottuagenario afflitto da demenza senile, confuso e malandato, con tutti i limiti (e gli ostacoli) a cui l'età lo mette davanti.

Forte di un gran finale a sorpresa, il film si aggira nelle stanze buie dell'imperdonabile, in cui ancora sopravvive l'orrore e si conservano i germi maledetti dell'antisemitismo, lasciando che un monumentale Christopher Plummer (86 anni e non sentirli) si carichi sulle spalle tutto il peso di un passato che, inesorabile, torna.

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Il figlio di Saul: quando il cinema è indelebile

Questo film è indelebile: nel senso che non si cancella, che non passa, che non viene via. Ma ti resta addosso, anche dopo giorni che l'hai visto: e anche quando credi di non pensarci più, ti chiede conto, bussa alle tue porte più nascoste, ti segue ovunque tu vada. Non te ne liberi de <Il figlio di Saul>: come una cicatrice guadagnata sul campo o un tatuaggio segreto che solo tu sai di avere. Esordio dolorosissimo e potente (in una stagione felice assai per le opere prime, da <Mustang> a <Ti guardo>) dell'ungherese Laszlo Nemes (già assistente di Bela Tarr), <Il figlio di Saul> scrive attraverso un punto di vista inedito una pagina importante del cinema della Shoah: raccontando in 4/3 e con abbondanza di piani sequenza una giornata all'inferno di un prigioniero di Auschwitz, membro del sonderkommando (i <miserabili manovali della strage>, come li definì Primo Levi, deportati che, pur di sopravvivere qualche settimana in più, collaborarono con le SS), che riconosciuto il cadavere del figlio rischia la vita (sua e altrui) pur di seppellirlo secondo le regole della propria religione.

Folgorante sin dall'attacco, atroce seppure attraversato da lampi invisibili di lancinante compassione, il premiatissimo film di Nemes (Grand Prix a Cannes, Golden Globe e forse, adesso, l'Oscar), sempre addosso al protagonista, lascia, con una soluzione stilistica (e morale) di grande impatto, volutamente fuori fuoco (e spesso fuori campo) i dettagli dell'orrore, rendendo in questo modo (nel condividere la cecità di chi non volle o  non vuole sapere) ancora più terrificante la disumanità di quell'assurda catena di montaggio dello sterminio.

Perché in un mondo in cui l'unica ragione di vivere è avere almeno rispetto della morte e la pietà è l'ultima forma possibile  di riscatto e ribellione, mai come in questo caso <non vedere> è più di <vedere>.

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