Festival, Recensione, 2024 Filiberto Molossi Festival, Recensione, 2024 Filiberto Molossi

Dune: Parte 2, la bellezza e l'orrore

È proprio così: «la bellezza e l'orrore». La maestosa magnificenza dell'orizzonte del nulla e la brutalità affilata e «banale» del sangue e delle lame. Là dove tutto è rito, cerimonia, iniziazione, Denis Villeneuve continua a diffondere il verbo: e con implacabile (e strisciante) forza seduttiva (la «reverenda madre» del suo cinema) nutre il battito visionario di un kolossal sì epico e romantico, ma soprattutto politico. «contemporaneo».

Perché nella storia del ragazzo che non voleva essere il messia - ma bevuto il veleno dell'ambizione è costretto ad accettare il suo destino e a vestire i panni dell'eletto che può indicare la via -, il grande regista canadese de «La donna che canta» e «Arrival» agita anche le profezie dell'oggi, tra incubo nucleare e rivolta terzomondista, strenua difesa del sistema (che si autorigenera sempre uguale a se stesso) e guerra santa, realpolitik e protervia del controllo. Costruendo, nella continua contrapposizione degli accecanti ocra e arancio degli esterni e del buio marziale degli interni, l'ipotesi di un (altro) mondo possibile.

Trascendente e metafisico (ma d'altra parte opportunamente ancorato a una fantascienza tangibile, di carne, polvere e metallo), il secondo atto di «Dune», film-progetto pensato e realizzato in grande, fonde il racconto di formazione (l'ascesa di Paul Atreides che, accolto dai ribelli Fremen, ne diventa il leader contro gli invasori Harkonnen) con il melò (la storia d'amore con l'indigena e laica Chani, sentimentale ma razionale, di gran lunga il personaggio più integro), cavalcando suggestioni mistico-shakesperiane che rinnovano - complice un cast molto glam, molto «figo» (Chalamet, Zendaya, ma anche new entry come il leggendario Christopher Walken e un irriconoscibile e mai così crudele Austin Butler) - una suggestione potente, una fascinazione avvolgente.

Laggiù, nel pianeta di sabbia: su un campo di battaglia dove la smisurata brama di potere incontra la fede più assoluta: quella nella speranza.

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Elvis: il re è vivo, viva il re

Il re è vivo: viva il re. E' una Cadillac rosa col motore di una Ferrari, «Elvis»: più che un biopic un film-manifesto, la versione di Baz: un rutilante, visionario, immaginifico e strabordante big show sulla «rivoluzione Presley», su Elvis come dio del rock, leggenda, quello che volete o vi pare: ma soprattutto in quanto fenomeno capace di influenzare, in modo improvviso ma definitivo, la cultura di massa. Elvis, il ragazzo e il simbolo: che sul palco, limitandosi a essere semplicemente se stesso, imprime una svolta decisiva alla morale, al cambiamento dei costumi, alla libertà sessuale (il suo modo di muoversi, che fece scandalo...), persino (lui cresciuto tra i neri e con la loro musica) all'integrazione razziale. Accolto al Festival di Cannes da una standing ovation di 12 minuti il film di Luhrmann, che è piaciuto di più ai critici europei che a quelli statunitensi (trattasi, specie da quelle parti, comunque di «divinità» e il rischio blasfemia è sempre presente...) punta a fare della storia di Elvis, breve (morì, sfatto e distrutto, ad appena 42 anni) e eterna, un grande racconto americano. Dove più che la verità o la finzione, il racconto o l'interpretazione, conta - e esce potente dallo schermo - il cinema: forte di un montaggio insostenibile e spavaldo (le inquadrature sono brevissime, non durano più di 4-5 secondi l'una), il film (puntellato di una colonna sonora di guest star, tra cui i nostri Maneskin) assomiglia a Elvis nella sua sovrabbondanza, nel suo darsi, in maniera spericolata e generosa, al pubblico, alla gente. E allora ecco che Luhrmann, non proprio un alfiere della sottrazione, usa senza risparmio tutto quello che ha in dote: split screen, graphic novel, ralenti, fermo immagine, materiale d'epoca, scritte, sovrapposizioni. Ne esce un film visionario e potente, con una prima parte bellissima, frutto di un'energia incandescente e una seconda, invece, quella declinante, più ripiegata su stessa, ma non per questo (i momenti musicali sono straordinari, trascinanti o struggenti a seconda del momento) meno incisiva. Il regista di «Moulin rouge» ha poi un'idea vincente e funzionale nel consegnare la parte dell'io narrante all'antagonista, il colonnello Parker (che non era né colonnello né tanto meno si chiamava Parker...), il manager padre-padrone di Elvis. Un dualismo, quello tra Presley e il colonnello, su cui si regge la parte più puramente narrativa (e meno di palco e di pancia) del film: un rapporto sublimato padre/figlio (o vittima/carnefice) che mette, uno di fronte all'altro, una grande star nel ruolo del «cattivo», Tom Hanks, e un quasi sconosciuto - Austin Butler, autore di una performance (anche dal punto di vista fisico) clamorosa - in quello del protagonista.

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