L'albero di Ceylan: i frutti selvatici del grande cinema
Il morso di una ragazza che avevi dimenticato quanto era bella, un pozzo senz’acqua, una famiglia che aspetta che sia troppo tardi: hanno un peso, una forma, un senso anche i silenzi nel cinema saggio, pieno di dialoghi fondi, privato eppure politico, di Nuri Blige Ceylan. Che gira con <L'albero dei frutti selvatici> un altro bellissimo film che ha il passo dei grandi romanzi russi (come non pensare a Cechov, da sempre principale riferimento letterario dell'autore de <Il regno d'inverno>?), ma guarda alle contraddizioni attuali e allo stallo di un Paese, la Turchia, dove <la verità non è sempre popolare>. La storia di Sinan, aspirante scrittore, che, una volta laureato, torna nella città di origine: sogna di pubblicare il primo romanzo, ma alla fine è il <suo>, quello della sua vita, che il film scriverà...
Il rapporto col padre, prof che si è giocato tutto ai cavalli, l’eredità della Storia, l’accettazione - dopo lunga (in)sofferenza - di sè. Lungo oltre tre ore, impegnativo ma ispiratissimo, <L'albero dei frutti selvatici> è fitto di incontri (splendido quello con la ragazza per cui in fondo hai sempre provato qualcosa, ma, implacabili, complici l'insistenza e talvolta l'arroganza del protagonista, anche quelli con lo scrittore affermato e l'imam) e attraversato, lacerato, da scontri generazionali, da conflitti interiori, da illusioni ostinate, da fili invisibili che ci collegano tutti, là dove nessuno è senza peccato.
Un film votato al mistero: di un albero, della vita. Che Ceylan non smette di cercare: scavando anche quando tutti dicono che è inutile.
Paradise, il tribunale del limbo e della memoria
L'amico ritrovato: nei giorni della memoria, si affaccia nelle sale un film che credevamo perduto. A più di un anno dal Leone d'argento vinto a Venezia (con cui ha bissato quello ottenuto nel 2014 con il poetico <Le notti bianche di un postino>), l'80enne maestro russo Andrej Konchalovsky ci porta per mano nell'immaginario tribunale del limbo, dove la banalità del male (e del bene) espone le sue ragioni, senza cercare, tra barlumi, improvvisi, di coscienza, giustificazioni. Un film in 4/3 scritto e montato benissimo, girato in un bianco e nero di grande profondità, con cui il grande autore riflette, in modo sorprendente, sulla natura umana.
Durante la seconda guerra mondiale le vicende, destinate a incrociarsi, di un collaborazionista francese, del comandante tedesco di un campo di concentramento e di un'aristocratica russa che milita nella resistenza, arrestata dal primo e prigioniera del secondo...
La catena di montaggio dell'orrore, i rapporti di forza, i fantasmi che tormentano chi un giorno studiava Cechov e quello dopo progettava lo sterminio: tre confessioni piene di gesti abituali e slanci improvvisi, inferni in terra e paradisi illusori. Una spina conficcata nel fianco molle di ieri che fa male anche al tormentato e incerto oggi: perché solo il sacrificio estremo sembra potere sconfiggere la retorica dell'odio.