Senza lasciare traccia: utopia e resistenza di un cinema clandestino
E' come un film dovrebbe provare sempre a essere, <Senza lasciare traccia>: fondo, brusco al palato, ruvido al tocco. Suggestivo, ma quasi per caso. E complice, per quanto possibile, coi drammi interiori dei suoi personaggi, esclusi, invisibili o magari dimenticati, altro (e fuori) dal mondo. Nascosti dietro a un rifiuto: o - semplicemente - convinti di non avere bisogno di essere salvati. C'è un'utopia non consolatoria, una resistenza anche morale, nel nuovo film di Debra Granik: che nel vuoto cosmico della nostra ostinatissima sovraesposizione accarezza le ferite, in un nomadismo incessante che ti spinge a cercare quello che non c'è, di chi invece vive cancellando le sue orme, negando la propria presenza. Come Will e sua figlia Tom, di 13 anni, che vivono in un parco, dormendo in una tenda, lontani dagli agi e dalle paranoie della modernità. Un giorno però vengono scoperti... Contadini che allevano conigli da esibizione, gruppi di danza devozionale, selfie sui bus: in un Paese di reduci, la Granik coglie l'inadeguatezza di un'umanità sopravvivente incapace di confrontarsi con le regole del vivere <civile>. I punti di contatto con <Un gelido inverno> (il suo film più famoso) sono molteplici (dallo stile livido all'ambiente inospitale), ma non è un limite: solo la prova di un percorso coerente di un cinema clandestino e post traumatico dove le adolescenti sono sempre padri dei loro padri.