Festival, Recensione, 2017 Filiberto Molossi Festival, Recensione, 2017 Filiberto Molossi

L'inganno: il giardino delle vergini omicide

Il giardino delle vergini omicide. Feriti e perduti in territorio nemico nel bel mezzo di una guerra fratricida cosa potreste sognare di più e di meglio che essere amorevolmente accolti e accuditi da Nicole Kidman, Kirsten Dunst e Elle Fanning? Un paradiso in terra. Però attenti, maschi: le apparenze ingannano. Perché se è vero che anche nel mondo di Sofia (Coppola) gli uomini preferiscono le bionde, è altrettanto certo che ogni harem può trasformarsi in mattatoio.

Remake di un classico, spiazzante e feroce, di Don Siegel, <La notte brava del soldato Jonathan> (con Clint Eastwood, allora affascinante quarantenne), <L'inganno> e' un film molto elegante, curatissimo in una confezione dove oltre la ricchezza dei costumi e dell'ambientazione non si può non notare il maniacale lavoro sulla luce (sia negli esterni luminosissimi che negli interni notturni, in cui sono le ombre prodotte dalle candele a parlare): un raffinato gioco di seduzione i cui rapporti di forza  si poggiano su un equilibrio fragilissimo, destinato ovviamente ad andare in mille pezzi.

Ambientato come l'originale nella guerra di secessione, la pellicola racconta di un caporale nordista (Colin Farrell)  in fuga dal campo di battaglia: scovato da una ragazzina, viene portato in un collegio femminile. Dove diventa in breve tempo, per studentesse e insegnanti, la principale attrazione...  Lui cerca di salvarsi, le donne di conquistarlo, in un confronto sottile dove vanità, sessualità repressa e gelosia troveranno terreno fertile per sfoderare le unghie.

Se la tensione erotica è evidente, il gioco delle gatte col topo aveva però in Siegel una valenza più marcata e politica: era il '71, ma quel film, a distanza di 46 anni, sembra ancora oggi più moderno e traumatico di questo della Coppola. Che pure, non a caso premiata all'ultimo Festival di Cannes come migliore regista,  è brava assai nel creare l'atmosfera così come nel dirigere gli interpreti: rinunciando al punto di vista maschile dell'originale - dichiaratamente antifemminista in un periodo in cui esserlo non era certamente popolare né forse nemmeno consigliabile  - per sposarne uno più dichiaratamente (e sadicamente) femminile. E' la vera novità di un film dove i pantaloni -  come spesso capita nel cinema della regista di <Marie Antoinette> - li porta sempre chi indossa la sottana.

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2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2016, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Se Ramona si sente Ray: 3 generations allo specchio

Si chiama Ramona, ma si sente Ray. E' un adolescente imprigionato in un corpo da ragazza, un sedicenne in cerca di sè nel complicato viaggio delle vita, il protagonista di <3 generations>, film gender per eccellenza con cui Gaby Dellal esplora il territorio minato e senza riferimenti della transizione, quando non si è più quello che si è stati ma non si è ancora quello che si vorrebbe essere: una commedia (seria e, a tratti, dolorosa) sull'identità, sulla coraggiosa affermazione del proprio io negato che - nell'affrontare un tema pieno di insidie come quello del cambiamento di sesso - sfocia, in realtà, in un family drama al femminile. Dove, ancora più della trasformazione in atto di Ramona/Ray, conta la fragilità dei rapporti (di forza) e l'indissolubilità dei legami (di sangue) che governano le parti in campo di un anomalo focolare domestico composto dalla ragazza che vuole diventare ragazzo, dalla madre divorziata che l'appoggia e dalla nonna lesbica, che invece è spaventata da quanto potrà accadere. Tre generazioni, appunto, costrette inevitabilmente ad entrare in collisione, ma anche a sorreggersi e a soccorrersi reciprocamente, in un film onesto e sentito ma che avrebbe potuto e dovuto mordere di più. Anche se l'assenza di pregiudizi e il ricorso all'umorismo permettono alla pellicola di trovare la sua strada, complici le interpretazioni della giovanissima Elle Fanning, di Naomi Watts e di una strepitosa Susan Sarandon, 70 anni e non accorgersi di averli.

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The neon demon, il vanitosissimo inferno della bellezza

A uno che sa girare come Nicolas Winding Refn perdoni molte cose: anche il fatto che adesso si firma NWR, acronimo che probabilmente pensa faccia figo. Puoi anche arrivare (quasi) a perdonargli il suo penultimo film, <Only God forgives>: ma qui si va già più sul difficile. Però con <The neon demon>, ipnotico, flashato e iper visionario incubo a occhi aperti, il gioco si fa davvero duro: perché per quanto il film, fischiatissimo all'ultimo Festival di Cannes, abbia raccolto qua e là anche fan importanti (i Cahiers lo hanno adorato e anche in Italia ha avuto estimatori e copertine extra lusso), la deriva estetizzante di un regista altrove geniale risulta ormai praticamente insopportabile.

Stilizzato e plastico sin dalla prima inquadratura, l'ultimo viaggio nella forma dell'autore di <Drive> (il suo apice, ma forse anche un punto di non ritorno...) è un film vanitosissimo e innamorato (nonché vittima) di se stesso, sensuale e saturo, ma più di tutto megalomane e noioso.

Partito per riflettere sul culto (necrofilo) e sulla <dannazione> della bellezza (che <non è tutto: è l'unica cosa>), sulla ricerca ossessiva di una perfezione che è insulto, malattia, Refn - raccontando la storia di una giovane (e almeno in apparenza innocente) modella (la 18enne Elle Fanning) appena arrivata a L.A. - si abbandona presto, nel seguire le giornate della sua stilosissima Cappuccetto Rosso smarrita nel bosco della fama e del potere, in un compiaciuto delirio di onnipotenza che finisce con lo scivolare nell'horror più compulsivo e antinarrativo (tra cannibalismo, riti sacrificali e modelle vampiro in cerca di briciole di eternità...), in un continuo e algido specchiarsi nel vuoto, dove si alternano simbolismi iperrealistici e spottose sequenze videoclippare.

Sulle prime (quando racconta poco ma almeno bene ed è ancora difficile identificarne la natura) affascinante, <The neon demon> alla lunga assomiglia invece a un brutto film di Lynch: l'allegoria è sovrabbondante, la provocazione esibita, la geometria ripetuta.

E il talento glam-punk di Refn (autore di rottura costretto a spingersi all'estremo per piacersi) finisce col sembrare una costosissima Ferrari rimasta senza benzina e con un paio di gomme bucate: bella sì, ma che te ne fai?

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