Il volo da fermo del Colibrì
Che poi se ci pensi è tutto lì, in quello sforzo: quello che fai per riempire il vuoto. Che quello sforzo, mica lo capisci subito, ma è la vita: e, nonostante tutto, ti piace, ti basta, così. Anche se a volte scappi nella direzione sbagliata o credi di avere ancora tempo: ma è il tempo che si fa gioco di te. E allora «metti tutta la tua l'energia per restare fermo»: in attesa che quella bimba che dorme nell'amaca diventi abbastanza grande per dirle di non piangere.
Sa essere struggente - e toccante anche - per quanto non sempre voli altissimo - «Il colibrì» di Francesca Archibugi, trasposizione - ad alto rischio - del romanzo premio Strega molto amato e altrettanto letto di Sandro Veronesi, già di per sé, per concezione e struttura narrativa, «intimamente» cinematografico. Un libro che l'Archibugi affronta con rispetto mantenendo, coraggiosamente (ma opportunamente) l'ossatura di una storia mai lineare o cronologica, ma fatta tutta di salti, balzi, risonanze che la regista affronta con (pure a volte un po' meccanica) scioltezza, senza sottolineare inutilmente con date in sovrimpressione i continui cambi temporali, ma lasciando che a parlare sia il make up, la scenografia, i sentimenti.
In questo modo la vicenda umana di Marco Carrera, bimbo troppo piccolo per la sua età, ragazzo sopravvissuto rocambolescamente a un incidente aereo, adulto resiliente capace di resistere, mettendo gli altri davanti a sé, alle bufere e agli insulti della vita, uomo innamorato sempre e solo della stessa donna, ha un senso per tutti, ognuno ci riconosce la propria crepa.
Piuttosto il film, dove un'infinità di interpreti a fuoco (da Nanni Moretti a Berenice Bejo, da Benedetta Porcaroli a Laura Morante e Kasia Smutniak) si muovono intorno al protagonista Pierfrancesco Favino, nel non volere dimenticare nessun pezzo per strada, nel non riuscire a rinunciare a nulla, sovraccarica l'intreccio di eventi, ma non ha il tempo (come ha il romanzo o avrebbe avuto, brutto dirlo, una serie) di lasciarli decantare. Con il risultato che si fa fatica ad affezionarsi a questo o quel personaggio e che, paradossalmente l'overbooking sentimentale si traduca a tratti nello schermo, a causa della complessità della sintesi, in un bignami emotivo.
Restano però la tenerezza, i primi piani e una storia legata come un filo invisibile a un amore che non può finire, anche se forse non è mai davvero iniziato: e una dolcezza che sa raccontare lo strazio come la gioia. E dell'uno come dell'altra conosce nome e indirizzo.
Appesi al cornicione del terzo millennio: spersi e innamorati Gli sdraiati dell’Archibugi
Però li sa raccontare i giovani la Francesca: indecifrabili, annoiati, scazzati, spersi, soli al mondo, incompiuti, schiacciati da un peso che nemmeno loro sanno cosa, senza meta, ironici, innamorati, irrisolti, sdraiati. Appesi al cornicione del terzo millennio: che è un attimo, lo sai, cadere. E farsi male. Altro dai luoghi comuni in cui il mondo degli adulti cerca di recintarli, di contenerli, altro dalle etichette che gli appiccicano sopra e di cui loro stessi si prendono gioco, si fanno scherno. Che se si mettono le mani addosso, i ragazzi, è sempre per una tipa che mica è ancora una donna, ma una bimba immusonita e dagli occhi belli. Altro, soprattutto, da genitori insicuri e prevedibili, spaesati e inadeguati in quello stargli sempre addosso, in quel sentirsi sempre fuori dalla porta, dall'altra parte del muro. Magari pretendendo sincerità senza prima darla, spiegando anche quello che non conoscono, che non sanno. Nella solitudine del bosco verticale di una Milano non da bere (paese straniero per lei, romana nel midollo), l'Archibugi ascolta i dialoghi di un mondo capovolto, andando al di là del film <semplicemente> generazionale per trasformare il libro-lettera di Michele Serra in un romanzo familiare dove raccontare il rapporto di un padre separato, famoso giornalista televisivo, col figlio liceale. Due <pezzi unici> in cui però si riconoscono in tanti: mondi lontanissimi, incapaci di comunicare, di ammettere le proprie debolezze, di confessare le proprie colpe, che la regista fa scontrare, ma anche avvicinare. Donando a <Gli sdraiati> (nonostante un Bisio un po' monocorde – a differenza dei ragazzi, bravissimi - e una fotografia a volte piatta) una non scontata sincerità di situazioni e di sentimenti.
La pazza gioia di due matte da slegare
Come Thelma e Louise al tempo delle Rems, un occhio a <Il sorpasso> e tanta contagiosa, toscanissima, vitalità: una di queste sere fate una bella cosa, datevi a <La pazza gioia>. Elogio della fuga (e della follia), di un'amicizia al femminile che è sorellanza, abbraccio, appiglio, scudo, patto non scritto di due nate tristi in cerca di avanzi di felicità, costrette a scoprirsi, imprevedibilmente, necessarie l'una all'altra, l'ultimo film, picaresco e generoso, di Paolo Virzì inizia in commedia, vira al dramma e sfiora addirittura la tragedia: ma non c'è un momento che non gli resteresti abbracciato volentieri. Sulle note di <Senza fine> di Gino Paoli, una pellicola divertente (spesso molto) e malinconica allo stesso tempo, costantemente sospesa tra sorriso e sofferenza, costrizione e compassione, in una continua mescolanza e alternarsi di toni che ne rappresenta il gusto ma anche l'identità.
Storia di Beatrice e Donatella che, quasi per gioco, scappano dalla struttura psichiatrica dove sono detenute. Una è una proletaria di(s)messa, ex ragazza sul cubo con figlio piccolo dato in adozione, tatuaggi ovunque e una passione smodata per il valium; l'altra, esuberante berlusconiana non pentita, è una tabagista e scialacquatrice senza freni che sogna la spa e un baby doll. Ferite e scombinate, piene di lividi e di burrasche, sgambettate dalla vita, morsicate dal passato. E messe da parte da un presente in cui nessuno, sano di mente, potrebbe riconoscersi. Entrambe tradite dagli uomini e mollate dai genitori: due che insieme ci azzeccano poco, anzi niente. Eppure...
Ancora una volta - e con orgoglio - dalla parte dei perdenti, degli esclusi, Virzì scappa insieme alle sue matte da slegare (di cui è il primo complice), per farne due portatrici sane di empatia, donne da amare soprattutto per le loro debolezze e per la loro inadeguatezza.
Scritto molto bene (dal regista insieme a Francesca Archibugi), applaudito a lungo a Cannes, <La pazza gioia> conosce alti e bassi (certe situazioni sono troppo tirate, altre poco credibili o semplificate), l'equilibrio non è il suo merito maggiore e potrebbe essere anche accusato di non essere esnte da qualche furbizia: tutto vero, ma il film funziona, e lo fa senza artifici, senza sforzo. Forse anche perché ai dialoghi frizzanti e all'energia della visione danno un senso due magnifiche interpreti: Micaela Ramazzotti (nonché signora Virzì) che declina il suo malessere in livornese, e, soprattutto, un'incontenibile Valeria Bruni Tedeschi, più che brava strepitosa.