La pazza gioia di due matte da slegare

Come Thelma e Louise al tempo delle Rems, un occhio a <Il sorpasso> e tanta contagiosa, toscanissima, vitalità: una di queste sere fate una bella cosa, datevi a <La pazza gioia>. Elogio della fuga (e della follia), di un'amicizia al femminile che è sorellanza, abbraccio, appiglio, scudo, patto non scritto di due nate tristi in cerca di avanzi di felicità, costrette a scoprirsi, imprevedibilmente, necessarie l'una all'altra, l'ultimo film, picaresco e generoso, di Paolo Virzì inizia in commedia, vira al dramma e sfiora addirittura la tragedia: ma non c'è un momento che non gli resteresti abbracciato volentieri. Sulle note di <Senza fine> di Gino Paoli, una pellicola divertente (spesso molto) e malinconica allo stesso tempo, costantemente sospesa tra sorriso e sofferenza, costrizione e compassione, in una continua mescolanza e alternarsi di toni che ne rappresenta il gusto ma anche l'identità.

Storia di Beatrice e Donatella che, quasi per gioco, scappano dalla struttura psichiatrica dove sono detenute. Una è una proletaria di(s)messa, ex ragazza sul cubo con figlio piccolo dato in adozione, tatuaggi ovunque e una passione smodata per il valium; l'altra, esuberante berlusconiana non pentita, è una tabagista e scialacquatrice senza freni che sogna la spa e un baby doll. Ferite e scombinate, piene di lividi e di burrasche, sgambettate dalla vita, morsicate dal passato. E messe da parte da un presente in cui nessuno, sano di mente, potrebbe riconoscersi. Entrambe tradite dagli uomini e mollate dai genitori: due che insieme ci azzeccano poco, anzi niente. Eppure...

Ancora una volta - e con orgoglio - dalla parte dei perdenti, degli esclusi, Virzì scappa insieme alle sue matte da slegare (di cui è il primo complice), per farne due portatrici sane di empatia, donne da amare soprattutto per le loro debolezze e per la loro inadeguatezza.

Scritto molto bene (dal regista insieme a Francesca Archibugi), applaudito a lungo a Cannes, <La pazza gioia> conosce alti e bassi (certe situazioni sono troppo tirate, altre poco credibili o semplificate), l'equilibrio non è il suo merito maggiore e potrebbe essere anche accusato di non essere esnte da qualche furbizia: tutto vero, ma il film funziona, e lo fa senza artifici, senza sforzo. Forse anche perché ai dialoghi frizzanti e all'energia della visione danno un senso due magnifiche interpreti: Micaela Ramazzotti (nonché signora Virzì) che declina il suo malessere in livornese, e, soprattutto, un'incontenibile Valeria Bruni Tedeschi, più che brava strepitosa.

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