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Te l'avevo detto: la Roma sudata, grottesca e a perdere di Ginevra Elkann

«Perché non riesci a essere normale?».

In una Roma a cui manca l'aria, assolatissima e sudata, tossica come le relazioni che la consumano, un film bulimico e impietoso, grottesco e corale: giostra (dis)umana popolata da personaggi schiavi delle loro dipendenze, schiacciati dalle proprie debolezze, irrisi da un torrido presente di metaforica e polverosa canicola. Ognuno alle prese col suo vuoto (a perdere), la solitudine, il disagio, gli «eroi», eccentrici e dolenti, persi e feriti, dimenticati e paranoici, di Ginevra Elkann: che, al secondo film, senza abbandonare il tema forte della disfunzionalità parentale (madri e figlie, fratelli e sorelle, mogli e - ex - mariti) mira stavolta, dopo l'esordio garbato e semiautobiografico di «Magari», all'affresco, pungente e amaro, di una società decadente e decaduta a cui anche il riscaldamento globale sembra voglia fare scontare i suoi peccati.

Immerso in una fotografia caldissima e coinvolgente, tutta virata all'ocra, «Te l'avevo detto» punta al ritratto d'insieme ma pur trovando nelle sue short stories una personale tenerezza fatica a renderci partecipi, pagando in modo pesante l'approdo sugli schermi dopo «Siccità» di Virzì, a cui è per molti versi assimilabile.

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Tolo Tolo, Zalone sale sulla barca degli ultimi

Viva l’Italia: quella che canta De Gregori. Ma anche quell’altra, dei sushi bar fighetti e delle creme all’acido ialuronico contro le occhiaie, dei resort di lusso e delle tasse da pagare, dei cellulari sempre accesi e delle frasi fatte. Che è un attimo che ti distrai e ci scappi un attacco di fascismo. Che quello, fatevene una ragione, ce “l’abbiamo tutti dentro”: e mica basta il Gentalyn per farlo passare...

E bravo Checco: che nel solco profondo del politicamente scorretto porta una ventata di buon senso. E tra citazioni di Pasolini e numeri alla Mary Poppins manda in cortocircuito i luoghi comuni della percezione dell’”altro”; perché se certamente non siamo tutti nella stessa barca lui stavolta sceglie di salire sulla più scomoda: quella degli ultimi.

Successo stra-annunciato (poco meno di due milioni di spettatori in due giorni: praticamente quanto fatto da Ficarra e Picone in tre settimane...) , contestato (e incompreso) sin dal trailer, meno divertente ma più ambizioso di “Quo vado”, con “Tolo Tolo” Zalone alza il tiro affrontando alla sua maniera (ma con maggiore maturità, sacrificando a volte al “significato” il gusto della battuta fine a se stessa) il tema caldissimo (e ben più dibattuto del posto fisso) della migrazione, mettendo il dito nella piaga, scardinando o al contrario esaltando fino al paradosso i capisaldi su cui poggia lo scontro razziale e l’insofferenza nei confronti degli stranieri. Primi ministri incompetenti e arroganti arrivati dal nulla, vanitosi testimonial di onlus che nel momento del bisogno ti lasciano nei guai, grotteschi festival delle contaminazioni dove gli africani ballano la pizzica: salutato il fedele Nunziante, compagno di tante avventure, Zalone si prende la regia (e la responsabilità) sulle spalle e ingaggia Paolo Virzì per dare più corpo a un copione che mira alla satira sociale e di costume.

Ne esce una commedia politica dove il Checco nazionale, lasciato un discreto buco in patria, scappa in Africa: da dove, causa le scorrerie dell’Isis, sarà costretto ad attraversare il deserto e a compiere una vera e propria odissea per tornare, controvoglia, nel suo Paese... Se il riferimento principale (almeno per l’atmosfera) è “Riusciranno i nostri eroi...” di Scola, il film, che arruola numerose guest star (da Enrico Mentana a un autoironico Nichi Vendola), pure eccedendo in momenti surreali resta lucido nella sua ironia. La stessa con cui racconta la parabola di un’umanità (e di un’Europa) difettosa che si spartisce i migranti a chili attraverso la lotteria...

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2018, Recensione, Festival Filiberto Molossi 2018, Recensione, Festival Filiberto Molossi

Ella & John: la pazza gioia di chi il finale se lo scrive da sè

C'è tanta strada in questo film: davanti, ma soprattutto dietro. Nemmeno sempre asfaltata, a volte piena di buche profonde come segreti, altre di curve, cieche come abbracci dati ad occhi chiusi. E c'è un viaggio da fare. E sì, da qualche parte, dentro l'amarezza di giorni che stingono, c'è anche qualcosa che assomiglia alla gioia: pura, autentica, improvvisa. Anzi, pazza. Così come la <scandalosa> ribellione di chi il finale, se non vi dispiace, se lo scrive da solo: con buona pace di medici e figli, benpensanti e parolai.

Al primo film in lingua inglese della sua carriera, Paolo Virzì va alla scoperta di un'America minima, non turistica e tantomeno stereotipata, per raccontare l'ultimo giro in giostra di una coppia di anziani entrambi gravemente malati. Lui, il professore che forse tutti avrebbero voluto avere, ha l'Alzheimer, lei, lucidissima e coraggiosa, si sta spegnendo a causa di un tumore. Un giorno, senza dire niente a nessuno, salgono sul loro vecchio camper: destinazione la casa-museo di Hemingway a Key West...

Om the road agrodolce, crepuscolare, sentimentale, <Ella & John>, sequel ideale de <La pazza gioia>, è un film realizzato in maniera piuttosto convenzionale e a volte prudente, ma tenero e malinconico nel cogliere la romantica rivolta all'affronto di invecchiare di un uomo e di una donna che inseguono un'ultima occasione, un ultimo ricordo da potere, subito dopo, dimenticare.

Intima, sensibile, felice (come spesso accade nel cinema dell'autore toscano) nel mescolare toni e colori di segno anche opposto, la pellicola, che si appoggia - senza paura di schiacciarli - sulle spalle di due fenomeni come Helen Mirren (candidata per questo ruolo al Golden Globe) e Donald Sutherland, diretti da Virzì a viso aperto, senza farsi intimidire, rilegge il romanzo di Michael Zadoorian, che lo stesso regista - insieme a Francesca Archibugi (che nella Livorno di Virzì ha girato la serie <Romanzo famigliare>, attualmente in programmazione, con successo, su Rai Uno), Francesco Piccolo e Stephen Amidon -, ha adattato a una sensibilità propria, a un contesto culturale che gli era più congeniale.

Ritrovandosi così a celebrare non solo un viaggio <estremo> nell'America che si accingeva a eleggere Trump (big country che ha perso la poesia e che i due protagonisti non riconoscono più), ma, più di tutto, la storia di un grande amore. Che non accetta di essere oltraggiato dal tempo né di essere reso schiavo dalla malattia. E decide che nessuno può decidere per lui.

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La pazza gioia di due matte da slegare

Come Thelma e Louise al tempo delle Rems, un occhio a <Il sorpasso> e tanta contagiosa, toscanissima, vitalità: una di queste sere fate una bella cosa, datevi a <La pazza gioia>. Elogio della fuga (e della follia), di un'amicizia al femminile che è sorellanza, abbraccio, appiglio, scudo, patto non scritto di due nate tristi in cerca di avanzi di felicità, costrette a scoprirsi, imprevedibilmente, necessarie l'una all'altra, l'ultimo film, picaresco e generoso, di Paolo Virzì inizia in commedia, vira al dramma e sfiora addirittura la tragedia: ma non c'è un momento che non gli resteresti abbracciato volentieri. Sulle note di <Senza fine> di Gino Paoli, una pellicola divertente (spesso molto) e malinconica allo stesso tempo, costantemente sospesa tra sorriso e sofferenza, costrizione e compassione, in una continua mescolanza e alternarsi di toni che ne rappresenta il gusto ma anche l'identità.

Storia di Beatrice e Donatella che, quasi per gioco, scappano dalla struttura psichiatrica dove sono detenute. Una è una proletaria di(s)messa, ex ragazza sul cubo con figlio piccolo dato in adozione, tatuaggi ovunque e una passione smodata per il valium; l'altra, esuberante berlusconiana non pentita, è una tabagista e scialacquatrice senza freni che sogna la spa e un baby doll. Ferite e scombinate, piene di lividi e di burrasche, sgambettate dalla vita, morsicate dal passato. E messe da parte da un presente in cui nessuno, sano di mente, potrebbe riconoscersi. Entrambe tradite dagli uomini e mollate dai genitori: due che insieme ci azzeccano poco, anzi niente. Eppure...

Ancora una volta - e con orgoglio - dalla parte dei perdenti, degli esclusi, Virzì scappa insieme alle sue matte da slegare (di cui è il primo complice), per farne due portatrici sane di empatia, donne da amare soprattutto per le loro debolezze e per la loro inadeguatezza.

Scritto molto bene (dal regista insieme a Francesca Archibugi), applaudito a lungo a Cannes, <La pazza gioia> conosce alti e bassi (certe situazioni sono troppo tirate, altre poco credibili o semplificate), l'equilibrio non è il suo merito maggiore e potrebbe essere anche accusato di non essere esnte da qualche furbizia: tutto vero, ma il film funziona, e lo fa senza artifici, senza sforzo. Forse anche perché ai dialoghi frizzanti e all'energia della visione danno un senso due magnifiche interpreti: Micaela Ramazzotti (nonché signora Virzì) che declina il suo malessere in livornese, e, soprattutto, un'incontenibile Valeria Bruni Tedeschi, più che brava strepitosa.

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