2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Maledetta primavera, l'avventura di crescere tra paura e desiderio

Ha l'impaccio di giorni strani e la malinconia di quelli perduti, «Maledetta primavera», romanzo di formazione a tempo di lambada in quei fine anni '80 un po' sbiaditi, dove crescere resta un'avventura, tra disagio e desiderio, periferia e nuovi inizi. Debutto semiautobiografico nella fiction della documentarista (è quella del biopic sulla Ferragni) Elisa Amoruso (che dopo i titoli di coda fa scorrere i super 8 della sua famiglia, a cui l'opera prima è dedicata), un film piccolo e complice che lavora sulla potenza (e sulla trasfigurazione) del ricordo, nel solco di un «what if» che più che risposte cerca lo sguardo d'allora, gli occhi liberi da sovrastrutture di chi non ha ancora fatto i conti con i propri sogni né con la propria, solo accennata, ancora tutta da costruire, identità. Nell'educazione sentimentale di Nina, ragazzina -strappata dal suo quartiere bon ton da una madre che non ci sta più dentro e da un padre simpatico e inaffidabile che ha fatto dell'arte di arrangiarsi una ragione di vita - che si scopre attratta da Sirley, una bellissima e ribelle compagna di scuola della Guyana francese, riecheggiano certe atmosfere minimali di un cinema sensibile e pre-adolescenziale («Magari» della Elkann, ma anche la Sciamma), vaghe tracce del naturalismo della Rohrwacher, il mood, molto riconoscibile, di Virzì: la regista paga il prezzo dell'esordio non riuscendo a evitare le trappole dei (non pochi) cliché (il luna park, il bagno in mare, la famiglia che canta in auto...), ma sa sublimare l'incontro tra due modi differenti di essere sole, l'abbraccio tenero ancora prima che sensuale tra due ragazzine «straniere» in un mondo in cui non si riconoscono. Palazzoni e palazzacci, la Dea colore amaranto, le sigarette all'intervallo, le festine delle medie, I like Chopin, obbligo o verità: l'Amoruso parte da quello che conosce meglio, dà un peso e una forma a una memoria emotiva, sentimentale, provando ad avventurarsi fuori dai confini del già visto grazie al personaggio di Sirley, che ha una sua libertà rivoluzionaria e dirompente, l'esotismo (e l'erotismo) di un momento sospeso e magico. Quello che contribuiscono a rendere nitido le convincenti prove degli interpreti: a fuoco gli adulti (Micaela Ramazzotti, costretta a trovare nuove sfumature di un ruolo che è sempre quello, ma soprattutto Giampaolo Morelli, molto in palla), scelte bene, in modo non banale - anche fisicamente - le ragazzine.

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La pazza gioia di due matte da slegare

Come Thelma e Louise al tempo delle Rems, un occhio a <Il sorpasso> e tanta contagiosa, toscanissima, vitalità: una di queste sere fate una bella cosa, datevi a <La pazza gioia>. Elogio della fuga (e della follia), di un'amicizia al femminile che è sorellanza, abbraccio, appiglio, scudo, patto non scritto di due nate tristi in cerca di avanzi di felicità, costrette a scoprirsi, imprevedibilmente, necessarie l'una all'altra, l'ultimo film, picaresco e generoso, di Paolo Virzì inizia in commedia, vira al dramma e sfiora addirittura la tragedia: ma non c'è un momento che non gli resteresti abbracciato volentieri. Sulle note di <Senza fine> di Gino Paoli, una pellicola divertente (spesso molto) e malinconica allo stesso tempo, costantemente sospesa tra sorriso e sofferenza, costrizione e compassione, in una continua mescolanza e alternarsi di toni che ne rappresenta il gusto ma anche l'identità.

Storia di Beatrice e Donatella che, quasi per gioco, scappano dalla struttura psichiatrica dove sono detenute. Una è una proletaria di(s)messa, ex ragazza sul cubo con figlio piccolo dato in adozione, tatuaggi ovunque e una passione smodata per il valium; l'altra, esuberante berlusconiana non pentita, è una tabagista e scialacquatrice senza freni che sogna la spa e un baby doll. Ferite e scombinate, piene di lividi e di burrasche, sgambettate dalla vita, morsicate dal passato. E messe da parte da un presente in cui nessuno, sano di mente, potrebbe riconoscersi. Entrambe tradite dagli uomini e mollate dai genitori: due che insieme ci azzeccano poco, anzi niente. Eppure...

Ancora una volta - e con orgoglio - dalla parte dei perdenti, degli esclusi, Virzì scappa insieme alle sue matte da slegare (di cui è il primo complice), per farne due portatrici sane di empatia, donne da amare soprattutto per le loro debolezze e per la loro inadeguatezza.

Scritto molto bene (dal regista insieme a Francesca Archibugi), applaudito a lungo a Cannes, <La pazza gioia> conosce alti e bassi (certe situazioni sono troppo tirate, altre poco credibili o semplificate), l'equilibrio non è il suo merito maggiore e potrebbe essere anche accusato di non essere esnte da qualche furbizia: tutto vero, ma il film funziona, e lo fa senza artifici, senza sforzo. Forse anche perché ai dialoghi frizzanti e all'energia della visione danno un senso due magnifiche interpreti: Micaela Ramazzotti (nonché signora Virzì) che declina il suo malessere in livornese, e, soprattutto, un'incontenibile Valeria Bruni Tedeschi, più che brava strepitosa.

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Se Il piccolo principe ti insegna a guardare con gli occhi del cuore

Il piccolo principe? E' diventato grande e fa le pulizie in nero, sotto a un cielo a cui hanno rubato le stelle: quasi fosse un Peter Pan cresciuto che si è dimenticato (per sempre?) la magia dell'essere bimbo. Quando invece sapeva che <l'essenziale è invisibile agli occhi>. Una massima che vale anche per il cinema: a rammentarcelo ora è la raffinata e ambiziosa versione animata del capolavoro di Antoine de Saint-Exupéry, <testo sacro> della letteratura per l'infanzia (e non solo), il libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia, eterno best seller venduto in 145 milioni di copie.

Un romanzo inavvicinabile (per la profondità e la semplicità insieme, la moltitudine dei mondi da plasmare, l'iconografia ormai straclassica, e declinata in ogni forma e luogo, degli acquerelli realizzati per accompagnare il testo dallo stesso Saint-Exupéry) dal grande schermo, che adesso però viene coraggiosamente riletto, alla ricerca dell'innocenza perduta, da Mark Osborne (<Kung fu Panda>), con un film da 80 milioni di dollari che non è tanto la versione per immagini di quel classico di ogni tempo, ma la sua scoperta da parte di una bambina che - proprio grazie a <Il piccolo principe> -, riuscirà a smarcarsi dalla noiosa vita pianificata dalla madre.

Un modo questo di avvicinarsi al testo che permette a Osborne di girare un film a più livelli, in un continuo dentro e fuori dal romanzo, fino a che <realtà> (squadrata, monocorde) e fantasia (morbida, irregolare) non finiscono per incrociare le proprie strade: un gioco che figurativamente si traduce in un complesso ma a tratti affascinante alternarsi di diverse tecniche di animazione.

Ricco di doppiatori vip (Servillo, la Ramazzotti, Accorsi...), <Il piccolo principe> propone la forza della letteratura quale antidoto alla solitudine, riappropriandosi di un sentimento per il fantastico che poi è il segreto della tenerezza. Più che il tempo di crescere, il tempo di credere: di guardare, oltre le cose (schermo compreso), con gli occhi del cuore.

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"Il nome del figlio": la parola attore esiste

Metti una sera a cena: il film che visse tre volte (la prima a teatro, poi al cinema - in una premiata pellicola francese -, e ora infine in questo godibile remake made in Italy) è un flipper impazzito di frustrazioni, di bugie, di delusioni, come certi giorni che «ti impapocchiano i pensieri», tra bimbi dai nomi assurdi (tipo Pin, che pensi sia un ex centrocampista del Parma e invece è un omaggio a Calvino), musicisti in remata che lavorano su versioni jazz delle canzoni del Califfo, figli di papà che sfoderano magnum di champagne e fidanzate (molto) più giovani e il suv lo parcheggiano nel posto riservato ai disabili.
«Eroi» (si fa per dire) dei nostri tempi, che si tatuano mezzi cuoricini e nemmeno hanno tempo di andare ad aprire la porta per non perdersi l’ennesimo retweet; specchio e spaccato di un’epoca ipocrita, egocentrica e innamorata di se stessa: che se però si piange addosso è solo per poi ritrovare un sorriso, un modo (magari sulle note di Lucio Dalla) di ripartire.
Fratello e sorella di ottima famiglia, il marito di lei e la ragazza (coatta e incinta) di lui, più un amico di infanzia: una serata come mille. Che invece sarà diversa da tutte le altre...
Saporita e pungente commedia corale in bilico tra passato e presente, il nono film di Francesca Archibugi guarda a «Carnage» (ma con molta più tenerezza che cinismo) muovendosi tra grandi segreti e scherzi crudeli togliendosi di dosso, grazie a un ritmo disinvolto, un’ovvia teatralità. Certo, il meccanismo è già noto (dal confronto adolescenza/maturità alla cena come resa dei conti o gioco al massacro) e c’è a tratti nell’impiattamento della regista di «Questione di cuore» una certa maniera borghese: ma è indubbio che la pellicola è vitale, anche nel suo saper ferire. E nella messa a nudo di ogni debolezza, «Il nome del figlio» rivela la vocazione da film d’attori, scatenando una bella jam session di interpreti ispirati (dalla Ramazzotti alla Golino, da Papaleo a Lo Cascio): una gara di bravura dove primeggia Alessandro Gassman. Uno a cui, alla luce delle ultime prove, bisognerebbe chiedere scusa.

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