Padrenostro: il mito del padre e il trauma degli anni di piombo
E’ il tentativo interessante di realizzare qualcosa che invece alla fine in realtà sfugge: non tanto per rievocare (o comprendere) gli anni ‘70, quelli di piombo, ma per cogliere, con la macchina da presa ad altezza bambino, l’archetipo - e il mito -, del padre, il tema dell’eroe nella terra dove tutti, chi torna a casa e chi resta sull’asfalto, sono e siamo uomini. Sceglie uno stile evocativo e cerca l’elegia, a rischio di apparire presuntuoso, «Padrenostro», film ambizioso e interessante con cui Claudio Noce affronta i suoi fantasmi (nel ‘76 suo padre, all’epoca vicequestore, venne gravemente ferito in un attentato dei Nuclei Armati Proletari), tentando di dare una forma al trauma del terrorismo, raccontandolo però, in modo originale, dal punto di vista della sua generazione. Ecco così la storia del piccolo Valerio che vede suo padre crivellato dai colpi dei Nap: l’uomo si salva, ma nello scontro a fuoco muoiono un terrorista e un poliziotto. E per il bambino cambia tutto: fino a quando non conosce un ragazzino di poco più grande di lui... Fare finta di dormire per farsi portare a letto in braccio, il primo bicchiere di vino, un amico immaginario che forse così immaginario non è: sulle note della PFM Noce trova cose belle, spunti non banali, coglie quel vivere con la paura addosso e gli effetti sui figli di un disagio adulto. Ma il suo sembra sempre un po’ un film fatto più per se stesso che per gli altri, manca di scrittura, di tessuto (se paragonato ad esempio a un altro film sull’infanzia, «Io non ho paura»), finisce per raccontare meno di quello che vorrebbe, anche se la raffigurazione della figura paterna in quegli anni è «mitologicamente» esatta, autentica. E passa per occhi di interpreti credibili: i «piccoli» Mattia Garaci e Francesco Gheghi e quelli di Pierfrancesco Favino (il padre), premiato a Venezia con la Coppa Volpi per un film di cui in realtà non è il protagonista.