Ma Greenland non è la fine del mondo
Nel mondo un milione di persone sono morte di Covid, oltre 36 milioni si sono ammalate: intanto, mentre giriamo per strada e andiamo al cinema e al supermercato con la mascherina, i dati, dopo la «tregua» estiva, sono in costante peggioramento. La situazione è questa: e ai cervelloni di Hollywood sai che viene in mente per distrarci? Di fare un film sull'apocalisse: sì, proprio la fine del mondo, con estinzione quasi totale della razza umana e contorno di metropoli rase al suolo. D'altro canto l'ottimismo non è il sale della vita? Ora, io capisco tutto: ma vista la situazione contingente e le preoccupazioni che ognuno di noi si porta dietro, era il caso di giocarsi proprio adesso la carta «Greenland»? Con la sua retorica familista che puzza lontano un chilometro di ipocrisia («non importa cosa accadrà perché siamo insieme») e il solito percorso ad ostacoli da fare impallidire anche l'Odissea: e, soprattutto, un'angoscia costante per il destino del pianeta che invece di sganciarci dai nostri problemi ce li fa apparire, se possibile, più grandi e complessi. Chiamiamola se volete terapia d'urto, ma nemmeno in questo senso funziona particolarmente il film di Rich Roman Waugh, ex stuntman promosso da tempo regista, che usa il genere catastrofico per girare in realtà un film sul ricongiungimento, guardando a «The impossible» ma in una chiave più immediatamente riconducibile agli stilemi di «2012» o a «The day after tomorrow». «Greenland» assomiglia insomma a tanto di già visto e se altrove era il meteorite che minacciava la Terra, stavolta trattasi di cometa. Che perde i pezzi e, nel giro di poche ore, distruggerà il pianeta. Alcune famiglie sono state però scelte dal governo americano per trovare rifugio in bunker segreti in Groenlandia. Tra loro anche quella di John Garrity, ingegnere che sta cercando faticosamente di ricucire il rapporto con la moglie: non sa che lo attende il giorno più lungo, quello in cui dovrà lottare contro tutto e tutti per tentare di salvare la donna che ama e suo figlio, un bimbo con problemi di salute... Ansiogeno (con la steadycam che fa più volte da innesco delle tensione) ma piuttosto convenzionale, figlio del caos e della paura, il film è il percorso (accidentato assai) di redenzione di un uomo normale che vuole riconquistare la sua famiglia e per proteggerla si scopre capace di qualsiasi cosa, anche di uccidere. Nella follia collettiva di un inesorabile countdown, Waugh scatena la guerra per la sopravvivenza (homo homini lupus) ma più che al disaster movie è interessato alla dimensione intima della tragedia, rivelandosi però un po' moscio sia nelle sequenze spettacolari (che in notturna sono peraltro sin troppo confuse) che nello studio delle dinamiche interpersonali dei protagonisti, che non abbondano (il solito Gerard Butler, specializzato in missioni impossibili, non aiuta) in sfumature. Niente di troppo «disastroso», per carità: ma una pellicola poco plausibile che non brilla nemmeno per tempismo.