House of Gucci, tra melò e soap: l'epopea di una royal family della moda
C’è in Ridley Scott una spavalderia trash, forse anche dettata dall’età (e dal prestigio di chi deve rendere conto al massimo al padreterno), che non so ancora, nemmeno dopo quasi tre ore di film, se più mi attira o mi respinge. Perché ci vuole un bel pelo per mettere insieme «La ragazza del maglione» di Pino Donaggio e «Faith» di George Michael, Pavarotti e Bruno Lauzi, la tragedia shakespeariana e la soap che nemmeno Dinasty, il glam degli inarrivabili negozi di lusso e le chiromanti chip da «Ok, il prezzo è giusto», il melò alla «Padrino» e gli avanzi del giorno prima. Pacchiano e incontinente, ma anche efficace e sfacciato, «House of Gucci» che tende all'opera ma strizza l'occhiolino all'operetta, evoca Lady Macbeth ma la fa ballare coi sosia del Bagaglino: una fiaba prima lovely e poi dark spericolata e sopra le righe dove la cronaca nera (e vera) diventa - con un'interpretazione a tratti funzionale a questa storia di amori, amorazzi, affari più o meno puliti, passerelle e passacarte, vendetta e morte - telenovela. Preceduto da polemiche a non finire, foto ricordo di influencer e gossip creati più o meno ad arte, il nuovo film dell'autore di «Blade runner» (sempre sia lodato) cavalca senza sella l'epopea di una royal family della moda, concentrandosi soprattutto sulla nascita (esaltante) e la fine (tragica) di una coppia. Quella formata da Maurizio Gucci, erede riluttante di un marchio che adesso vale quasi dieci miliardi all'anno (dati pre pandemia) fondato un secolo fa a Firenze, e da Patrizia Reggiani, esuberante e seducente figlia di un imprenditore dei trasporti. Osteggiata dalla famiglia di lui, l'unione però sembra invincibile: e l'intraprendenza di Patrizia permette a Maurizio («ha difficoltà con il parchimetro, come farà a dirigere Gucci?», si chiede lei) di scalare, tra uno sgambetto e l'altro, le gerarchie: fino a che... Macchiettistico, discontinuo, pasticciato, «House of Gucci» ha però il merito di cogliere l'edonismo, l'avidità, la voglia di emergere di anni che credevamo di esserci lasciati per sempre alle spalle. Scott esagera col cerone (tutti quei divi troppo acciaccati - da Al Pacino a Jeremy Irons - o completamente fuori parte, come Jared Leto), cuoce a fuoco lento la ribollita (che è buona ma non sempre facile da digerire), spara Verdi e «La Traviata» in una scena hot degna del «Postino suona sempre due volte»: e finisce per confezionare un film che è molto dentro o fuori, prendere o lasciare. Ma che ha dalla sua una fantastica Lady Gaga, che impersona con notevole spontaneità (e grinta da star) Patrizia Reggiani in Gucci, vera protagonista di un feuilleton di cui la cantante cinematograficamente lanciata da «A star is born» è l'indiscussa e ambiziosissima regina.
Serenity: Brivido caldo incontra il Truman show. E a me viene il mal di mare
Il brivido è caldo, ma il thriller assai moscio. Che poi io posso anche capire che ci sia gente che paga il biglietto per guardare da vicino il fondoschiena che Matthew McConaughey – 50 anni (quasi) e (beato lui) non sentirli - mostra con grande generosità urbi et orbi. Ma che tu sia lì, a metà luglio, a vedere un film che comincia che sembra <Il postino suona sempre due volte> e prosegue che pare <Nirvana> (ma da bo?) ti fa venire almeno un paio di dubbi: il primo che potevi impiegare meglio la serata, il secondo che non solo il protagonista, ma anche il regista (e sceneggiatore, ahi) abbia esagerato col rum. E se permettete un po' ci resto: perché dietro la macchina da presa c'è pur sempre quel Steven Knight che ha scritto <La promessa dell'assassino> e che sei anni fa aveva girato un film-gioiello come <Locke>, interamente ambientato in un'auto. Qui invece prende il largo e si capisce già dal primo drone che qualcosa andrà storto, che ci sarà burrasca. O, peggio, bonaccia.
Bizzarro e improbabile mix tra un noir (che poi è come il film viene venduto attraverso il trailer) con dark lady d'ordinanza (Anne Hathaway versione biondo platino) e riflessione pseudo soprannaturale sul dolore dell'assenza (con vago ma non troppo invito a farsi giustizia da sé) e sulle domande assolute di un'umanità alla deriva (chi siamo? Da dove veniamo?), <Serenity> (che in patria è stato un flop) è l'incontro bislacco tra <La fiamma del peccato> e <Truman show>: capite da soli che non poteva funzionare.
Nell'isola che non c'è, dove tutti sanno tutto di tutti, un novello Achab, lupo di mare con barba perennemente da fare, pochi sorrisi e parecchi bicchieri in cui affogare i ricordi, riceve la visita della seducente ex moglie che gli propone un affare: uccidere il suo attuale marito, ricco e violento, e scappare con 10 milioni di dollari in contanti...
Inizialmente cinefilo ma poco originale, <Serenity> ci fa molto dentro sin da subito, calca la mano in modo insopportabile, specie nella caratterizzazione dei personaggi, mostra insomma – e sicuramente troppo – il ghigno. Difetti grossolani che sono nulla però davanti all'improvvisa svolta (in parte annunciata), il poco calibrato twist, che trasforma il film in altro da sé, provando a scandagliare acque più profonde, in una connessione che da carnale si fa spirituale. Nel cambio di rotta Knight non si priva di nulla – dalla tiritera sui reduci all'impotenza di chi è vittima di regole dettate da altri fino al balbettante discorso sulla genitorialità – finendo però nella stessa rete che aveva preparato per i suoi <pesci>. Lasciando il rimpianto di non potere incontrare un personaggio che il protagonista viene costantemente invitato ad andare a trovare: il dottor Bob, un analista che forse farebbe meglio a vedere anche il regista. E sicuramente noi, usciti dalla sala in preda a un discreto mal di mare.