In ricordo di Roberto Campari, il prof e l'amico
Quando non ci vedevamo al cinema, un posto che entrambi chiamavamo casa, ci incrociavamo spesso in via Farini: lui, immancabilmente sorridente, in bicicletta, io a piedi, di solito col cane. Finiva sempre allo stesso modo: che non andavamo più via, lui in ritardo per la spesa, io per tutto il resto. «Lo hai visto quel film?». «E questo com'è?». «E quell'altro quando esce?». E quella volta che Bertolucci...e il giorno che Scorsese... e quando la Cardinale... Se avete conosciuto quest'uomo gentilissimo e spiritoso, affabile e illuminato, innamorato del suo lavoro e del grande schermo, lo sapete anche voi: con poche persone - al mondo, intendo - si parlava meglio - e con più piacere - che con Roberto Campari. All'inizio lui professore e io studente (gli devo molto: ad esempio, la scoperta della commedia e del melodramma americano di una vecchia Hollywood di cui sapeva farti invaghire), poi, semplicemente, ma non in modo scontato, amici: forse per questo oggi è difficile, nemmeno fosse un brutto film da cui non vedi l'ora di uscire, pensare che Roberto non ci sia più, che abbia cambiato per sempre strada. E sala. Perché Campari non è solo il docente che per decenni, a migliaia di studenti, ha insegnato Storia del cinema: ma l'uomo che quella stessa storia ha contribuito a scriverla, a testimoniarla, in una parola a farla. Classe '42, figlio dell'uomo più bello di Parma (fonte: mia madre), appassionato sin da giovanissimo di cinema, divoratore di musical e di western, ad appena 19 anni comincia a firmare recensioni cinematografiche sulla Gazzetta come vice di Enea Puglia. «In quegli anni - raccontava Campari - il cinema aveva grande importanza e si aspettava con trepidazione ogni “prima” per poterne poi scrivere sul giornale, nello spazio dedicato che era sempre generoso». Sono gli anni in cui la piccola capitale si trasforma in set: il giovane critico a cui, da bimbo, Renata Tebaldi cantava la ninna nanna (lo ha raccontato appena un mese fa, ospite di 12 Tv Parma) non si perde, ancora liceale, la storica prima de «La ragazza con la valigia» al Teatro Regio, intervista la «parmigiana» Catherine Spaak (che, racconterà poi, era bellissima ma non un mostro di simpatia...), assiste all'ascesa di un ragazzino che ci sa fare, conterraneo e quasi suo coetaneo, Bernardo Bertolucci. Scrive bene Roberto e non dice cose mai banali: se ne accorge anche Arturo Carlo Quintavalle, che apprezza le sue critiche: ed è convinto che non avesse senso studiare la storia dell’arte senza considerare i media e il cinema, molto importanti e popolari e quindi meritevoli di essere studiati. La prima cattedra è del '71, a Cremona, in una sezione distaccata della Facoltà di Magistero di Parma. Poi, nel '74, complice il ritorno a Roma di Mario Verdone, il padre dell'attore e regista Carlo che fino allora aveva insegnato nella nostra città, Campari approda a Parma: per insegnare Tecnica e didattica del linguaggio cinematografico, che poi, qualche anno dopo, cambierà nome in Storia e critica del cinema. Da allora, decenni di lezioni, di insegnamenti, di film fatti vedere nelle aule della Pilotta, di fronte al monumento a Verdi: da John Ford a Sergio Leone, da Minnelli a Hawks, da Casablanca» a «Cantando sotto la pioggia». Se i parmigiani conoscono il cinema - il suo linguaggio, i suoi codici, il modo di essere, oltre che divertimento, arte - è merito anche di Roberto Campari. Di quel gentleman cortese che correva al cinema (e spesso anche a teatro) appena poteva (chi mai avrei potuto incontrare, se non lui, il giorno che le sale riaprirono dopo il lockdown?), lo stesso che non si perdeva una serata con quel regista o quell'attore. Generoso ed entusiasta, Campari, fino alla fine: era malato da qualche tempo, ma non si era mai perso d'animo. Ha continuato ad andare al cinema, a teatro (domenica era al Piccolo, a Milano), alle mostre. Ovunque ci fosse qualcosa di interessante, ovunque ci fosse vita. E non ha smesso di scrivere, lui che ha firmato tanti libri e saggi con editori importanti: «Parma e il cinema», ad esempio, un testo fondamentale per il rapporto tra la nostra città e la settima arte, così come «Miti e stelle del cinema», «Il discorso amoroso», il Castoro su Vincente Minnelli, «Il fantasma del bello», «Film della memoria» o «Storie di peccato», sul cinema e la censura. E l'ultimo, «Padri e figli nel cinema» (edito da La nave di Teseo), presentato, in un Ape Museo affollatissimo, durante l'ultimo Parma Film Festival: attualissima riflessione su un tema che il cinema è tornato a sviscerare con forza. Sempre affettuoso, un vero signore, Campari: incapace di nascondere la felicità per i continui successi del figlio Giovanni, fondatore del Birrificio del Ducato, e sempre pronto, fino all'ultimo giorno, a entusiasmarsi per un film, per uno spettacolo, per qualunque cosa valesse davvero la pena. Immancabile alle nostre «cene dei voti» (quando con altri amici cinefili, che ora lo piangono, decidevamo, con le gambe sotto il tavolo, i film dell'anno...), aveva un sorriso per tutti: e tutti, nonostante la sua manifesta esperienza e superiorità, trattava alla pari. Una volta mi ha detto: «Il cinema è come la vita al lavoro: ti restituisce qualcosa che hai perduto». Il resto sono lacrime: anche senza pioggia.