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Dune, sabbia e passione: Villeneuve sfida la maledizione

Di metallo, di sabbia, di roccia, di avidità e di ambizione: oltre che, ovviamente, di sangue. Arriva nelle sale così come era sbarcato - in un'attesissima anteprima mondiale andata subito sold out - a Venezia: con quel passo marziale che solo certi film possono permettersi il lusso di mostrare con orgoglio: consapevoli della grandezza della sfida, capaci di essere all'altezza del loro stesso destino. Prima parte, da 165 milioni di dollari, di una saga che si annuncia affascinante e suggestiva, «Dune», fanta kolossal di Denis Villeneuve (il regista di «Arrival» e «Sicario»: ma per l'amor di dio andate a rivedervi anche «La donna che canta»...), affronta l'ultra complesso e attualissimo mondo creato (in sei romanzi) da Frank Herbert con cui si erano già scottati, anni addietro, David Lynch (che pure, tra molti problemi, ne tirò fuori un cult) e Alejandro Jodrowsky, che invece non riuscì a farne nulla.. Materia sabbiosa che sfugge per definizione dalla presa, «Dune», che il grande regista canadese (uno che non ha avuto paura nemmeno di misurarsi con il monolite «Blade runner») trasforma però in un'esperienza cinematografica sontuosa, in particolare dal punto di vista visivo, donando prepotente profondità espressiva alla costruzione di un immaginario a cui è difficile resistere, oltre che perfettamente inutile. In universo sul baratro di una guerra santa, dove la ricchezza e il potere si basa sulla ricerca della Spezia, la materia che permette di compiere i viaggi interstellari, la casata degli Atreides viene inviata a governare Arrakis, il pianeta inospitale dove viene estratto il prezioso elemento... Nell'attesa di un messia che non sa se vuole essere tale, il film segue le visioni di un giovane eroe pallido e tormentato, nella certezza che anche l'eletto ha molta strada da fare. Appassionante ed epico, «Dune» (che nell'idea del regista dovrebbe essere una sorta di «Star Wars» per adulti) non lesina sugli effetti speciali, non inseguendo però una spettacolarizzazione di concetti alti fine a se stessa, ma piuttosto investendo risorse e creatività in un decor ricercatissimo - sia in interni che negli assolatissimi esterni - la cui potenza è sottolineata da una colonna sonora (di Hans Zimmer) che (come spesso accade nel cinema dell'autore canadese) invade lo schermo coi suoi bassi inquietanti. Un altro, importante, tassello - dopo «Arrival» e «Blade runner 2049» -, nella riflessione sulla fantascienza esistenziale condotta senza rete da Villeneuve, che qui, cosa di non poco conto, si avvale anche di un cast oltremodo glam ed «eccitante»: dal protagonista Timothée Chalamet a Zendaya, da Oscar Isaac alla bellissima Rebecca Ferguson, da Javier Bardem a Josh Brolin. Stelle di un cielo color sabbia.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Sicario: sul confine della vendetta, con licenza di morire

«Quali sono le regole dell'ingaggio?». «Fuoco a volontà, amico: fuoco a volontà». Preme il grilletto e centra il bersaglio «Sicario», il thriller a mano armata, robusto e spietato, con cui il canadese Denis Villeneuve mostra muscoli e denti. Un film tosto e minaccioso che oltrepassa il confine della morale per gettare benzina sulla già infuocata frontiera tra Messico e Usa: sposando stavolta però un punto di vista femminile, che coincide oltretutto, almeno per buona parte della pellicola, con quello dello spettatore: chiamato a condividere la stessa tensione della protagonista, la sua incertezza, il medesimo smarrimento di non sapere cosa accadrà un minuto dopo. 
Kate (Emily Blunt), brillante agente dell'Fbi, viene reclutata da Matt (Josh Brolin) per un'operazione segreta contro il cartello della droga messicano: tutti però sembrano volerla tenere all'oscuro su quello che sta accadendo davvero. Compreso Alejandro (Benicio Del Toro), un silenzioso colombiano...
Cinico, anche brutale, il film dimostra subito di avere la mano pesante grazie a un inizio che «spacca», permettendo a Villeneuve (che guarda a Mann) di riaffermare, con riprese ariose e suggestive sequenze aeree, un senso del cinema pieno e riconoscibile: certo, «Sicario» resta un passo indietro rispetto a «La donna che canta» e «Prisoners» (i precedenti e più frastagliati lavori dell'autore), ma si eleva dal convenzionale oltre che per lo stile marcato (magistrale in questo senso la scena della sparatoria alla frontiera, vera e propria lezione di cinema), anche per un lavoro attento e decantato sui personaggi. Da Kate, sigaretta sempre in bocca e la stessa t-shirt da una settimana, pedina inconsapevole in una scacchiera senza regole, a Alejandro, malinconica macchina di morte assetata di vendetta, passando per le infradito (perché sì, sono i particolari, a volte, a fare la differenza) di Matt, sarcastico duro senza sconti. Lo scontro, prevedibile, tra poliziotta idealista e specialisti del gioco sporco è già visto, ma Villeneuve è bravo a non lasciare qualche scrupolo per strada, moltiplicando le frontiere e i confini (non solo quello tra due Paesi, ma anche quello tra legale e illegale, tra maschile e femminile...) e rispondendo con ferocia ai dubbi etici della sua protagonista. Firmando così un film compiuto che molto deve al corto circuito prodotto dall'incontro tra il disorientamento esplicito di Kate e il dolore, intollerabile ma trattenuto, di Alejandro, nonché all'evidente stato di forma degli interpreti. Tutti molto bravi, a cominciare dalla Blunt che, lasciati i tailleur de «Il diavolo veste Prada» nell'armadio, scopre come sia bello, a volte, sporcarsi le mani.

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