Triangle of sadness, l'ultimo selfie sul naufragio del '900
Uno yacht da 250 milioni di euro pieno di turisti oltremodo ricchi che affonda insieme al suo capitano comunista e ubriacone: è il capitalismo, bellezza. Anzi, di più: è il naufragio del secolo breve, la fine ingloriosa del Novecento, ma immortalata dai selfie idioti di questa - instagrammabile (e insopportabile) - nostra epoca. E' il film pazzo, divertente, provocatorio, caustico, feroce e disturbante di un grande regista, «Triangle of sadness», la Palma d'oro (per il 48enne Ruben Östlund è la seconda) dell'ultimo Festival di Cannes: il manifesto apocalittico di un mondo che va (amen e così sia) in frantumi.
Una riflessione lucida e originale (oltre che spietata) che comincia facendo a pezzi (con un prologo molto potente) il mondo della moda (dopo che nel precedente «The square», demoliva quello dell'arte), ma diventa ben presto un film sull'esteriorità, sulla volgarità del denaro («argomento ipersensibile»), sulla lotta di classe e sui rapporti di forza (e i ribaltamenti di ruoli...), nonché, in maniera più allargata, una denuncia grottesca, scatologica e senza filtri (né freni) dei limiti della società (di ieri e di oggi) e del ruolo (fragile assai) del maschio contemporaneo.
Accolto da un boato sulla Croisette, il film, paradossale, schietta, feroce satira in tre atti dello svedese Östlund, cineasta poco avvezzo al compromesso che deride l'orrore della superficialità (e crudeltà) umana ricordandoci alla sua maniera che siamo in un mare di m. (no, questa volta, non è una metafora...), racconta di una coppia di modelli influencer (lei, Charibi Dean, brava e bellissima, è morta due mesi fa a 32 anni stroncata da un malore improvviso), invitati in una crociera super lusso: ma una notte, una tempesta sorprende la nave...
Da Marx alla Wertmüller, dalla Nutella (fatta arrivare con l'elicottero) al matriarcato: delirante e volutamente eccessivo, «Triangle of sadness» (il titolo si riferisce a un uso particolare del botox) non fa prigionieri. E ci sfida, con geniale faccia tosta, su più di un terreno minato: provate voi, se siete capaci, a trovare l'invisibile interruttore dell'ultima lampada che resta, inesorabilmente, accesa...
Miss Marx, un ritratto punk tra ragione e sentimento
Era una donna forte, emancipata, moderna, la figlia prediletta di un uomo, Karl Marx, che cambiò il mondo. Ma sopportò accanto a sè un uomo senza qualità, perdonandogli troppo e non riuscendo mai veramente a voltargli le spalle. Paragonata - non senza riferimenti indiretti ma chiari all’attualità (inevitabile scorgere nelle lotte di ieri il richiamo alle ingiustizie di oggi) - la condizione femminile a quella della classe operaia (destino comune quello di donne e lavoratori, entrambi oppressi), Susanna Nicchiarelli con «Miss Marx» (in concorso all'ultima Mostra di Venezia) rievoca la figura di un’attrice non protagonista della Storia, impegnata in prima linea nella battaglia per una società migliore ma tormentata dall’amore per un uomo di scarso talento che ne dissipò il patrimonio. Molto efficace nell’anacronistico contrappunto punk (con la musica «ribelle» sparata a tutto volume tra arredi e costumi fine ‘800), al film, colto e un po’ compassato, manca in realtà un po’ di elettricità, quella scossa che ne poteva determinare un destino differente, un esito più compiuto. Ma in questa storia senza tempo, «sul conflitto tra ragione e sentimento - come spiega l’autrice -, su quanto la forza delle nostre idee e convinzioni si possano sbriciolare davanti alla sfera emotiva», la Nicchiarelli trova, oltre a un bel finale, inquadrature di forte impatto (la sequenza dei capelli - che avrebbe forse dovuto aprire il film -, il ballo scatenato) con il limite di non riuscire sempre a dare loro il giusto ordine per fornire alla vicenda maggiore spinta e tensione emotiva così da legarci, per due ore o per sempre, a una donna vittima della sua stessa sensibilità.