Il figlio di Saul: quando il cinema è indelebile
Questo film è indelebile: nel senso che non si cancella, che non passa, che non viene via. Ma ti resta addosso, anche dopo giorni che l'hai visto: e anche quando credi di non pensarci più, ti chiede conto, bussa alle tue porte più nascoste, ti segue ovunque tu vada. Non te ne liberi de <Il figlio di Saul>: come una cicatrice guadagnata sul campo o un tatuaggio segreto che solo tu sai di avere. Esordio dolorosissimo e potente (in una stagione felice assai per le opere prime, da <Mustang> a <Ti guardo>) dell'ungherese Laszlo Nemes (già assistente di Bela Tarr), <Il figlio di Saul> scrive attraverso un punto di vista inedito una pagina importante del cinema della Shoah: raccontando in 4/3 e con abbondanza di piani sequenza una giornata all'inferno di un prigioniero di Auschwitz, membro del sonderkommando (i <miserabili manovali della strage>, come li definì Primo Levi, deportati che, pur di sopravvivere qualche settimana in più, collaborarono con le SS), che riconosciuto il cadavere del figlio rischia la vita (sua e altrui) pur di seppellirlo secondo le regole della propria religione.
Folgorante sin dall'attacco, atroce seppure attraversato da lampi invisibili di lancinante compassione, il premiatissimo film di Nemes (Grand Prix a Cannes, Golden Globe e forse, adesso, l'Oscar), sempre addosso al protagonista, lascia, con una soluzione stilistica (e morale) di grande impatto, volutamente fuori fuoco (e spesso fuori campo) i dettagli dell'orrore, rendendo in questo modo (nel condividere la cecità di chi non volle o non vuole sapere) ancora più terrificante la disumanità di quell'assurda catena di montaggio dello sterminio.
Perché in un mondo in cui l'unica ragione di vivere è avere almeno rispetto della morte e la pietà è l'ultima forma possibile di riscatto e ribellione, mai come in questo caso <non vedere> è più di <vedere>.