Oscar: ecco gli attori e gli attrici più candidati di sempre
Chi sono gli interpreti - attori e attrici - più volte candidati nella storia del premio dei premi? Ecco i primi dieci, che in realtà sono 17. Premessa: indovinare chi guida la classifica non è difficile...
1. MERYL STREEP 21 NOMINATIONS, 3 VITTORIE
Un fenomeno: con gli altri non c'è nemmeno partita. La prima candidatura è del '79, 40 anni fa, con Il cacciatore. Poi ci ha preso gusto e tanti saluti: negli ultimi 9 anni, l'hanno nominata 6 volte: semplicemente mostruosa. Di Oscar ne ha vinti 3: per Kramer contro Kramer, La scelta di Sophie e The Iron Lady. Ultima nomination con The Post.
2. KATHARINE HEPBURN, 12 NOMINATIONS, 4 VITTORIE
L'unica a potere contrastare il dominio della regina Meryl: perché se è vero che la gara delle nominations finisce prima di cominciare, la mitica Kate (primo Oscar nel '33, ultimo 50 anni dopo) di statuette ne ha pur vinte 4 (La gloria del mattino, Indovina chi viene a cena, Il leone d'inverno, Sul lago dorato): e nessuno ha osato fare meglio.
3. JAKE NICHOLSON, 12 NOMINATIONS, 3 VITTORIE
Questo fantastico brutto ceffo guida la classifica degli uomini: nessun attore è stato più candidato di lui. Vince in tre decadi diverse: prima con Qualcuno volò sul nido del cucuolo, poi con Voglia di tenerezza, infine per Qualcosa è cambiato.
4. BETTE DAVIS, 10 NOMINATIONS, 2 VITTORIE
La cattiva della Hollywood classica domina gli anni '30 dove vince due volte (per Paura d'amare e Figlia del vento), ma arriva a nomination fino ai '60. Curiosità: dopo la sua morte i suoi Oscar andarono all'asta. Li ha comprati, perché non andassero persi, un suo fan: Steven Spielberg.
5. LAURENCE OLIVIER, 10 NOMINATIONS, 1 VITTORIA
Il sovrano degli attori, leggenda del palcoscenico, va in doppia cifra: ma vince solo una statuetta, per l'Amleto. L’Academy lo candida, ma poi gli fa fare la comparsa: assurdo.
6. SPENCER TRACY, 9 NOMINATIONS, 2 VITTORIE
Se somma le sue con quelle della Hepburn, con cui fece coppia, pareggiano la Streep. Ma pure da solo, il giusto di Hollywood arriva lontano. Per lui, due vittorie consecutive negli anni '30: Capitani coraggiosi e La città dei ragazzi.
6. PAUL NEWMAN, 9 NOMINATIONS, 1 VITTORIA
Qui si è rischiata la farsa: attore enorme, capace di prestare i suoi occhi blu a più di mezzo secolo di grandissimo cinema, non vinceva mai. Crede di farcela con Il verdetto, poi vede Ben Kingsley in Gandhi e capisce che dovrà aspettare ancora. Il risarcimento arriva con Il colore dei soldi, film costruito proprio per farlo arrivare lì, all'agognata statuetta.
6. AL PACINO, 9 NOMINATIONS, 1 VITTORIA
E’ nei magnifici 10: A me però i conti non tornano: solo un Oscar per un fenomeno del genere? Hollywood lo manda in cinquina nel '73, ma la statuetta arriva solo 20 anni dopo per Scent of a woman. Dal '73 al '76 è stato candidato 4 volte di seguito.
6. DENZEL WASHINGTON, 9 NOMINATIONS, 2 VITTORIE
Vince come non protagonista nell’ormai lontano ‘90 come migliore non protagonista (“Glory”), poi si ripete nella categoria principale grazie allo sbirro cattivo di “Training day”. Nel 2017 conta di fare tris con “Barriere”: non vince e ci resta malissimo.
10. CATE BLANCHETT, 8 NOMINATIONS, 2 VITTORIE
Ecco una che può scalare la classifica: classe ‘69, ha il tempo e il talento per ricevere ancora molte nominations e pure qualche statuetta. L’Oscar arrivò al primo tentativo con “Elizabeth”, poi bissato da “Blue Jasmine”.
10. MARLON BRANDO, 8 NOMINATIONS, 2 VITTORIE
Attore iconico per la sua generazione e non solo: tra la prima e l'ultima candidatura passano quasi 40 anni. Vince per Fronte del porto, poi, quando bissa con Il padrino manda a ritirare la statuetta un'attrice vestita da indiana...
10. GLENN CLOSE, 8 NOMINATIONS, 0 VITTORIE
Un altro caso scolastico: Glenn ci prova sempre, ma non la calcolano. A secco abbastanza incredibilmente per “Le relazioni pericolose”, c’è rimasta malissimo l’anno di “The wife”, quando ci credeva moltissimo.
10. JUDI DENCH, 8 NOMINATIONS, 1 VITTORIA
Otto candidature sparse in tre decenni: l’ultima per “Belfast”, nel 2022, quando ha già 88 anni. Ma vince nel ‘99 grazie alla sua performance della regina di “Shakespeare in love”.
10. ROBERT DE NIRO, 8 NOMINATIONS, 2 VITTORIe
Sua maestà: 8 nominations in 50 anni, dal ‘75 - quando vinse al primo colpo per “Il Padrino 2” e nemmeno andò a ritirare la statuetta (stava girando “Novecento” di Bertolucci nel Parmense) - all’anno scorso quando venne candidato per “Killers of the flowers moon”. Per l’attore che è le vittorie (la seconda statuetta nell’81, per “Toro scatenato) onestamente sono poche.
10. JACK LEMMON, 8 NOMINATIONS, 2 VITTORIE
Vince al primo tentativo, con La nava matta di Mr. Roberts, poi bissa, circa 20 anni dopo, grazie a salvate la tigre. ma assurdamente non coglie la statuetta con L'appartamento e A qualcuno piace caldo.
10. GERALDINE PAGE, 8 NOMINATIONS, 1 VITTORIA
La candidano in continuazione, ma la fanno vincere solo quando anziana per In viaggio verso Bountiful, che forse ricordano in pochi. Anche in questo caso, un premio che sa di consolazione. Meritata, certo.
10. PETER O'TOOLE, 8 NOMINATIONS, 0 VITTORIE
Lo scandalo vero: ripetutamente candidato in 4 decadi diverse, lungo 44 anni. Non lo calcolano mai per la vittoria, nemmeno la prima volta per “Lawrence d'Arabia”. Unico contentino, l'Oscar alla carriera.
Emilia Pérez, estro spavaldo: il coraggio di un cinema altro
E' come la bicicletta nel calcio, quando alzi il pallone di tacco dietro la schiena e lo fai passare sopra la testa: ha dentro la bellezza inattesa di quello stupore, di quel gesto non solo simbolico, «Emilia Pérez». E' quel momento lì: un film che passa inosservato quanto un impiegato del catasto che va in ufficio in accappatoio. C'è dell'estro, e sì, del genio pure, nell'affrontare una storia sull'identità (negata, cercata, urlata) con un film che non ne ha nessuna o meglio moltissime, tutte insieme: melò e gangster movie, musical e cinema politico.
È spavaldo e molto libero l'ultimo lavoro che il grande Jacques Audiard («Tutti i battiti del mio cuore», «Il profeta», «Un sapore di ruggine e ossa») ha girato andando alla ricerca di un cinema «altro», svincolato dai generi «ufficiali», «ibrido», rischioso, dove i protagonisti - come sempre nei suoi film - sono in costante, perenne, complesssa, evoluzione.
Vincitore di 4 Golden Globes (tra cui quello per il miglior film nella sezione Commedia e Musical) e di 5 Efa (gli Oscar europei), premio alle attrici e alla giuria a Cannes, candidato a 13 Oscar, osannato dai critici di mezzo mondo, «Emilia Pérez» è un triplo tuffo all'indietro con doppio avvitamento: un musical su uno spietato criminale che decide di diventare quello che si è sempre sentito: una donna...
Bizzarro ma coraggioso, originale e inaspettato, il film, per quanto improbabile, fa però del sentimento coreografia: canzoni e numeri di danza sono pertinenti oltre che realizzati benissimo (le canzoni sono della cantautrice Camille, già voce dei Nouvelle Vague) e anche il melodramma, sposandosi con le tematiche transgender, sembra assumere, così come il boss, una nuova identità.
Forte di un cast assolutamente «sul pezzo» (la migliore è Zoe Saldana, ma ovviamente i riflettori sono puntati su Karla Sofia Gascón, che potrebbe diventare la prima attrice trans a vincere un Oscar), con «Emilia Pérez» Audiard si interroga sulla redenzione, sul riscatto dell'amore e su un passato che (anche perché non possiamo fare a meno di andarlo a cercare) torna sempre, realizzando una pellicola, intensa e non ordinaria, sulla natura dell'uomo, dell'individuo. E su quella del lupo.
Le Povere creature dì Lanthimos, un film geniale che emancipa lo sguardo
L'emancipazione femminile? E' una strada tortuosa. Anzi, peggio: è un film dell'orrore. Tanto che a volte vale la pena di riderci su. Come fa, con estro e fantasia, il greco Yorgos Lanthimos, che non solo rilegge «Frankenstein» in chiave femminile e femminista, ma nel denunciare la pressione e il controllo con cui gli uomini cercano di ingabbiare (ieri, oggi, sempre..,) le donne gira un film immaginifico e geniale sulla scoperta di sé (e del mondo), un bizzarro e grottesco viaggio iniziatico ai confini del libero arbitrio dove tutto ha il sapore della prima volta.
Fantasmagorico, affascinante, provocatorio, amaro e insieme divertente, «Povere creature!», l'ultimo lavoro dell'inclassificabile autore di «La favorita» e «The lobster», rivisita, attraverso il romanzo omonimo dello scozzese Alasdair Gray, il tema classico e gotico della creatura di Mary Shelley, venandolo di riflessioni universali e molto contemporanee.
Nella Londra vittoriana, un medico dal volto ricoperto da orribili cicatrici (Willem Dafoe) riporta alla vita una giovane suicida (Emma Stone) con un folle esperimento. Senza vergogna e pregiudizio, priva di alcuna maschera sociale e di senso di colpa (e, apparentemente, anche senza passato), la donna abbandona lo scienziato-dio padre che l'ha (ri)messa al mondo pronta a imparare, da Lisbona a Parigi, tutto daccapo: provando sulla sua pelle emozioni e rischi dell'essere...
La natura del piacere e quella del potere, il rapporto - complesso anche per qualsiasi scienza empirica - con il sentimento, l'affermazione di sé al di là delle rigide convenzioni sociali, il sesso, l'innocenza: là dove l'individuo ricrea l'universo attraverso le sue regole e non tramite quelle precostituite e comunemente accettate del sistema, Lanthimos realizza un originalissimo film-esperimento - vincitore del Leone d'oro a Venezia, di due Golden Globes (tra cui quello per la migliore commedia dell'anno) e candidato a ben 11 Oscar - in cui emancipa anche il nostro sguardo, senza paura di eccedere nell'uso del grandangolo (e nel minutaggio: sono due ore e venti), ma, saltando con agilità dal bianco e nero al colore, trovando una sintassi affascinante fra distorsioni, fondali da vecchio cinema, inquadrature da buco della serratura.
Un mondo dove una strepitosa Emma Stone si può muovere a corpo libero, adorabile «mostro» finalmente libera, come lo spettatore, da qualsiasi catena.
Belfast, è stata la mano di Branagh
«Fai il bravo. E se non puoi fare il bravo, fai attenzione». E' un film affettuoso e struggente, amaro, ironico, tenero e nostalgico, girato ad altezza bambino, con la cinepresa spesso piantata per terra e gli occhi spalancati su una realtà che sa essere magnifica e terribile, «Belfast»: «la mano di Dio» di Branagh che (dopo Sorrentino e poco prima di Spielberg) torna all'infanzia (la sua, irresistibilmente cinematografica e convintamente nordirlandese), per dedicare questo salto all'indietro senza rete, molto bello e molto sentito, a chi è rimasto, a chi se ne è andato e a chi, invece, si è semplicemente perso. Partite a pallone e filo spinato, tabelline e perquisizioni, la ragazzina bionda del primo banco e il coprifuoco: quando in strada scoppiavano le molotov, ma si poteva ancora ballare. E il coperchio di un bidone della spazzatura era lo scudo per affrontare i draghi. Oppure i sassi dei giorni dell'Ira. Dichiarazione d'amore alla città che lo ha visto crescere e che è stato costretto a lasciare troppo presto, «Belfast», candidato a sette Oscar (tra cui quello per il miglior film) e vincitore del Festival di Toronto, è il film più personale e intimo di un regista capace di sbancare i botteghini nei panni di Poirot, passando con disinvoltura estrema (e discreto becco di ferro) da Shakespeare a Thor e Cenerentola, senza però mai tradire (o, peggio, abiurare) la meraviglia del cinema che lo travolse sin da bambino, quando in sala le automobili volavano e in tv davano «Mezzogiorno di fuoco» e «L'uomo che uccise Liberty Valance». Girato nel bianco e nero luminosissimo della memoria (che sostituisce il colore del prologo in un'apertura di grande impatto ed efficacia che già dice tutto), «Belfast» punta la macchina del tempo sull'anno domini 1969, quando, ad agitare l'infanzia felice di Buddy (Jude Hill, deb favoloso) arrivarono i «troubles», il conflitto tra cattolici e protestanti che portò il Paese al caos. Una tragedia nazionale che trasformò la strada dove abitava la famiglia (protestante e pacifica) del regista in un campo di battaglia. Eppure l'amore poté più della violenza, il ricordo, anche nel dramma, sa di zucchero. E sulle note di Van Morrison, Branagh, nella sua rievocazione semiautobiografica, trova primi piani che parlano, un bel taglio e un cast perfetto anche nei caratteristi. Nella consapevolezza di non avere lasciato indietro nessuno: perché qualcuno deve rimanere per forza. «Se no chi proverà nostalgia per chi se ne è andato?».
Un altro giro, la crisi di mezza età in fondo al bicchiere
Questo non è un film sul bere. È un film sui limiti: morali, umani. personali. E non è nemmeno, a guardare bene, un film sull'alcol: ma, piuttosto, sul potere d'attrazione dell'alcol, sul suo fascino «facile» e immediato, sulla sua capacità di aprire la strada verso l'euforia o l'oblio: le medicine più efficaci contro lo stallo di un'esistenza che non sembra più andare da nessuna parte. È bravo Vinterberg e mica da oggi: scomoda Kierkegaard e la natura del fallimento per raccontare, in modo divertente e amarissimo, la sua generazione (50 e più), facendo degli amici miei e della bottiglia gli alcolisti non anonimi di un Paese in costante stato d'ebbrezza, vittime (in)consapevoli dell'inevitabile crisi di mezza età convinte di risolvere i propri disagi affogandoli in un bicchiere dopo l'altro. C'è del marcio in Danimarca, è cosa nota: ma la lezione stavolta è universale così come il cinema del regista de «Il sospetto» che affronta in modo assolutamente originale, stando ben attento a non scadere nella denuncia o nella retorica, una piaga sociale, là dove la dipendenza non è il peggiore dei problemi, quanto la cartina di tornasole di chi cerca disperatamente un alibi alla propria resa o addirittura la giustificazione scientifica ai propri vizi, alle proprie debolezze. Provocatorio, scorretto, «Un altro giro» (Oscar per il miglior film internazionale e una pioggia di Efa), animale raro anche nell'ambito del cinema d'autore, diffida degli astemi (lo era pure Hitler...) e lascia campo libero a Martin (Mads Mikkelsen, bravissimo) e ad altri tre insoddisfatti professori di liceo che decidono di sperimentare su stessi la stravagante teoria di uno psichiatra norvegese secondo cui bere alcol con una certa metodicità migliora la vita. E in effetti i primi risultati sono incoraggianti: i quattro si scoprono più vitali e sicuri di sè, riacquistano fiducia. Ma ci prendono gusto: e finiscono per esagerare... L'alcol come piacere sociale, fuga dalla realtà, consolazione, terapia: in una nazione dove «tutti bevono come pazzi», Vinterberg guarda attraverso il vetro smerigliato del bicchiere la deriva e la caduta di un uomo che, mentre la moglie non ha tempo di ascoltarlo e i figli nemmeno ci pensano, ha perso se stesso, quello che era, quello che non è diventato. E ne fa il simbolo danzante dell'incapacità di dare un esempio alle nuove generazioni, di una comune sconfitta esistenziale, ma anche della necessità di prendersi dei rischi, di ricominciare a vivere, a qualunque costo e in qualsiasi modo.