2022, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2022, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Il volo da fermo del Colibrì

Che poi se ci pensi è tutto lì, in quello sforzo: quello che fai per riempire il vuoto. Che quello sforzo, mica lo capisci subito, ma è la vita: e, nonostante tutto, ti piace, ti basta, così. Anche se a volte scappi nella direzione sbagliata o credi di avere ancora tempo: ma è il tempo che si fa gioco di te. E allora «metti tutta la tua l'energia per restare fermo»: in attesa che quella bimba che dorme nell'amaca diventi abbastanza grande per dirle di non piangere.

Sa essere struggente - e toccante anche - per quanto non sempre voli altissimo - «Il colibrì» di Francesca Archibugi, trasposizione - ad alto rischio - del romanzo premio Strega molto amato e altrettanto letto di Sandro Veronesi, già di per sé, per concezione e struttura narrativa, «intimamente» cinematografico. Un libro che l'Archibugi affronta con rispetto mantenendo, coraggiosamente (ma opportunamente) l'ossatura di una storia mai lineare o cronologica, ma fatta tutta di salti, balzi, risonanze che la regista affronta con (pure a volte un po' meccanica) scioltezza, senza sottolineare inutilmente con date in sovrimpressione i continui cambi temporali, ma lasciando che a parlare sia il make up, la scenografia, i sentimenti.

In questo modo la vicenda umana di Marco Carrera, bimbo troppo piccolo per la sua età, ragazzo sopravvissuto rocambolescamente a un incidente aereo, adulto resiliente capace di resistere, mettendo gli altri davanti a sé, alle bufere e agli insulti della vita, uomo innamorato sempre e solo della stessa donna, ha un senso per tutti, ognuno ci riconosce la propria crepa.

Piuttosto il film, dove un'infinità di interpreti a fuoco (da Nanni Moretti a Berenice Bejo, da Benedetta Porcaroli a Laura Morante e Kasia Smutniak) si muovono intorno al protagonista Pierfrancesco Favino, nel non volere dimenticare nessun pezzo per strada, nel non riuscire a rinunciare a nulla, sovraccarica l'intreccio di eventi, ma non ha il tempo (come ha il romanzo o avrebbe avuto, brutto dirlo, una serie) di lasciarli decantare. Con il risultato che si fa fatica ad affezionarsi a questo o quel personaggio e che, paradossalmente l'overbooking sentimentale si traduca a tratti nello schermo, a causa della complessità della sintesi, in un bignami emotivo.

Restano però la tenerezza, i primi piani e una storia legata come un filo invisibile a un amore che non può finire, anche se forse non è mai davvero iniziato: e una dolcezza che sa raccontare lo strazio come la gioia. E dell'uno come dell'altra conosce nome e indirizzo.

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Lacci, quell'ipocrita e tossico stare insieme

Ha ragione Daniele Luchetti: «Sbagliano tutti». I mariti, le mogli, persino i figli. E, a volte, pure i registi. Perché è pur vero che non è difficile riconoscersi nel lessico familiare di «Lacci», nei suoi rimorsi, nei suoi rancori: il problema, se mai, è quello di trovare entusiasmo nel rapportarsi a un film che alla fine è più borghese del contesto che racconta e al tormento un po’ ipocrita di un cinema che non perdona l’altrui disagio ma non sa dare un nome e un senso al proprio. Proposto, in modo sin troppo audace, in apertura dell'ultima Mostra del cinema di Venezia (un onore-onere di cui la pellicola ha beneficiato solo in parte, non essendo, per caratteristiche proprie, particolarmente adeguata al compito), l’ultimo lavoro di Luchetti, altrove regista sensibile e ispirato («Il portaborse», «La nostra vita»), fatica a conquistare un pubblico che già ha i problemi suoi, figurati se ha voglia di accollarsi anche quelli degli altri. Così, se al minuto 37 cominci a guardare l’orologio, provando un certo fastidio per la concezione teatrale, i dialoghi sin troppo letterari (al limite del sentenzioso) e quell’indugiare, non particolarmente utile, sui primissimi piani, è abbastanza evidente che qualcosa non è scattato. E che difficilmente scatterà dopo. Ritrovato Domenico Starnone (l’autore del romanzo di successo da cui è tratto il film) a 25 anni dalla fortunata esperienza de «La scuola», il regista di «Mio fratello è figlio unico» mette in scena l’anatomia di una coppia (e l’autopsia di un matrimonio) tra momenti di trascurabile infelicità scanditi in due movimenti temporali: i primi anni ‘80, quando Aldo, due figli piccoli e un lavoro in radio, confessa alla moglie Vanda che si è innamorato di un’altra donna (una giovane e bella collega), e il presente quando i due, nonostante tutto, sono ancora insieme. Efficace quando più che alle parole («per stare insieme bisogna parlare poco») si affida ai gesti e all’espressività di sentimenti altrimenti troppo caricati ed esposti (quelle litigate mute, viste dietro a un vetro di imbarazzato silenzio), «Lacci», poco aiutato da un cast peraltro prestigioso (da Luigi Lo Cascio ad Alba Rohrwacher, da Silvio Orlando a Laura Morante: ma la più convincente e in parte è la giovane Linda Caridi), coglie con una certa verità la debolezza, il cinismo e la vigliaccheria maschile (e l’incapacità di sottrarsi dalla propria quotidianità), risultando a tratti però presuntuoso, nonché affaticato nel rincorrere le conseguenze di un amore tossico che segna tutti i personaggi. Vittime di una riconciliazione che è un atto di masochistica lealtà: moralmente corretta, ma profondamente disonesta.

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