Un uomo chiamato sciacallo
Questo film è un animale a sangue freddo. Ha la pelle liscia del rettile ed è velenoso quanto e più di un serpente. Striscia, anche quando corre: e sa aspettare. Tutto il tempo che serve. E' un predatore, una creatura della notte: dagli occhi fuori dalle orbite e dai denti aguzzi, affilati come coltelli. Una bestia metropolitana assetata di sangue. Perché, se ancora non lo sapete, «il sangue fa audience».
E' una riflessione disincantata e feroce sulla violenza dei media, un atto d'accusa contro i notiziari che vanno in onda all'ora dei vampiri trasformando le tragedie in punti di share, «Lo sciacallo»: e allo stesso tempo (e non potrebbe essere altrimenti) anche una critica tagliente del morboso voyuerismo di un pubblico che si nutre, senza catarsi possibile, del dolore altrui. Ma è anche un film che va molto oltre l'ovvio: e fissa, senza distogliere lo sguardo, la faccia deforme del sogno americano, il Paese dove ognuno ha un'opportunità: ma in cui solo chi morde la gola del sistema, calpestando nel deserto dell'etica ogni regola civile, può davvero essere all'altezza delle proprie ambizioni.
Sinistro e minaccioso, lo scarno e psicotico (e assai efficace) debutto dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Dan Gilroy si immerge nella notte più fonda di un'epoca senza scrupoli dando vita a un film cinico e spietato sul degrado culturale di un mondo dove i social hanno ucciso da un pezzo la privacy e nemmeno la morte ti protegge dall'orrore di una non richiesta notorietà. Nella solitudine losangelina, dove solo il gracchiare dello scanner rompe il silenzio, Lou, ladruncolo senza arte né parte, si inventa un mestiere: e, armato di telecamera, filma gli eventi più cruenti per rivendere le immagini a tv locali a caccia di scoop 24 ore su 24...
Cucito addosso a uno splendido personaggio di terrificante attualità (che è e fa il film) un intrigo che lambisce il thriller, Gilroy misura l'assenza di battito di un'America spiantata, senza lavoro, spersa, aggressiva, avida: osservando l'abisso di una generazione senza padri né madri (ma perennemente connessa) che manipola la verità (da «testimoni» ad «autori» della notizia) piegandola ai propri scopi (o a quelli dell'audience). Non riconciliato, anti moralistico, cattivo senza compiacimenti, «Lo sciacallo» è una pellicola compatta dall'inizio alla fine che fa il salto di qualità grazie anche all'interpretazione da Oscar di un inedito e strepitoso Jake Gyllenhaal: che dimagrito 8 chili, scavato e maniacale, porta in giro una faccia da coyote affamato, mentre negli occhi gli brilla il lampo di una lucida follia.