A declaration of love: l'America di Speroni
È' stato condannato a morte per un crimine che non ha mai commesso. E per il quale ha scontato 22 anni in una prigione sotto terra, senza finestre, senza mai vedere la luce del sole. Lo hanno sepolto vivo in un pozzo senza fondo dove ogni giorno ti sembra di affogare: poi, dopo essersi accorti dell'errore (ma non dell'orrore), lo hanno liberato senza nemmeno chiedergli scusa. Lasciandolo in pasto a un mondo che non l'ha accettato: e da cui Curtis McCarty, simbolo vivente dell'altra faccia - quella guasta, marcia e piena di demoni - dell'America è fuggito, si è, volontariamente o meno, allontanato, eclissato. Non prima però di raccontare la sua storia - e testimoniare il suo strazio e la sua sconfitta - a un regista parmigiano, Marco Speroni, una partecipazione al Festival di Locarno (con «Cosa c'entra con l'amore»), molta tv e tanti documentari potenti, spesso a sfondo sociale, alle spalle. Che ora con «A declaration of love» ha girato un film intenso, toccante e dolorosissimo che il 7 giugno passerà al Biografilm di Bologna.
Come hai incontrato la storia di Curtis?
«Per caso: avevo in mente tutto un altro film, un film sui diritti umani e per questo sono andato alla Comunità di Sant'Egidio. Mi hanno aperto un mondo: quello legato alla pena di morte. Ho cominciato a incontrare persone incarcerate ingiustamente, vittime di errori giudiziari: tutti, in un qualche modo avevano trovato un loro, pur precario, equilibrio. Poi mi hanno parlato di Curtis, uno sbandato, un homeless. E a me questo più di tutto interessava: raccontare la storia di chi non ce l'aveva fatta».
Come sei riuscito a metterti in contatto con lui e convincerlo ad aprirsi in modo così emozionante con te?
«È stata un'avventura, l'ho trovato in modo rocambolesco. Curtis ha solo due cose a cui tiene e da cui non si separa mai: un vecchissimo portatile e una macchina fotografica con cui ha fatto scatti crudi ed estremamente potenti (immagini davvero straordinarie che il film mostra, ndr) dei suoi amici tossicodipendenti. A volte passava la notte in quei locali molto tristi e cheap che in Usa sono aperti 24 ore su 24 e in questo modo riusciva a connettersi col mondo. L'ho contattato su Messanger e mi ha dato un appuntamento. Sono praticamente partito alla cieca per Oklahoma City col direttore della fotografia Riccardo Russo: ci aveva dato appuntamento in un parcheggio nel sobborgo deprimente e desolato dove ha sempre vissuto. Abbiamo aspettato tre ore, invano. Eravamo lì lì er andarcene poi ho deciso di fare due passi intorno: a un certo punto in fondo a un prato, in lontananza ho visto una specie di fagotto, una sagoma. Era lui, ripiegato sul suo zaino, che dormiva profondamente: quando si è svegliato e ha capito chi ero ha abbassato gli occhi. Mi ha straziato il cuore vedere un uomo di 56 anni vergognarsi perché l'avevo visto in quelle condizioni. Lo abbiamo portato in una safe house: dove abbiamo girato lungo l'arco di sei giorni l'intera intervista, poi montata da Federico Schiavi, che è anche il produttore del film».
In «A declaration of love» usi soprattutto il primissimo piano durante l'intervista e movimenti molto lenti e calibrati negli esterni, spesso crepuscolari. Ci racconti il perché di queste scelte stilistiche, tra l'altro molto efficaci?
«Volevo catturare l'emozione: il primissimo piano è qualcosa che ti mette in un contatto fisico e intimo con la persona che hai davanti. Credo che coinvolga anche di più il pubblico. Con il primo piano così stretto, indagatore volevo restare attaccato a ogni sfumatura emotiva, a ogni lacrima, a ogni pausa, a ogni smorfia di Curtis. Mi interessavano le sue rughe, le sue espressioni, i suoi stati d'animo. Poi c'è il secondo protagonista del film, che è la città: la sua città, quella vista coi suoi occhi. Lui è sempre rimasto lì, in quel sobborgo: non ha visto altro che quello, non è nemmeno mai andato a downtown, ti rendi conto? Sono stato tante volte negli Stati Uniti per lavoro, mi sono mosso da persona privilegiata, ma mi sono accorto che avevo una percezione distorta dell'America. Che è anche quel posto qui, dove in ogni casa c'è un'arma, esiste un razzismo e un fascismo radicato e profondo e tutti sono a favore della pena di morte».
In effetti questo alla fine non è solo un film su Curtis, sulla sua devastante e emblematica parabola umana, ma anche sull'America...
«Non si può tacere il fatto che gli Usa abbiano serissimi problemi con il loro sistema giudiziario e carcerario. Curtis è stato condannato tre volte: la prima da un tribunale a causa di prove contraffatte, la seconda dalla società che lo ha rifiutato impedendogli di reintegrarsi e la terza nuovamente da un tribunale che gli ha dato 10 anni - il massimo della pena - per una cosa ridicola, possesso di metanfetamine, nonostante tutto quello che gli era già successo. Non volevo però fare della sua storia un manifesto contro la pena di morte né riaprire il suo caso: a quello ci pensa già lui. Con la sua sofferenza e il suo strazio».
Che ci commuove. E al tempo stesso solleva la nostra indignazione verso un sistema che non ha pietà per i vinti.