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Fortunata, una strategia basata sull'amore

 <Devi fare una strategia basata sull'amore>.

Che mica servirebbe solo a lei, a Fortunata: sempre di corsa, col reggiseno che spunta dalla canottiera, il rossetto messo in fretta, la ricrescita nei capelli. Novella Antigone in guerra colmondo, incapace di non ribellarsi alla sua meschinità: con quel nome che sa di sberleffo, che non le rende giustizia. Ma anche a Sergio Castellitto che il cuore, quello, ce lo mette sempre: piuttosto manca un po' di sobrietà, di misura, di equilibrio. Succede così praticamente in tutta la sua produzione da regista e non fa eccezione nemmeno <Fortunata>, il film sudato e proletario che ha girato in una Roma assolta e multiculturale. Traducendo in immagini una sceneggiatura della moglie Margaret Mazzantini, che immagina la parabola di una giovane madre (Jasmine Trinca, bravissima: e premiata come migliore attrice di Un certain regard a Cannes) che cerca di guadagnarsi giorno per giorno il suo diritto alla felicità:  tra un ex marito violento, gli usurai cinesi,  il sogno nel cassetto di aprire un negozio da parrucchiera...

Ambientato in una borgata quasi immaginaria da tanto la realtà sembra abitare altrove, il filmdi Castellitto ha un gran bel personaggio, viscerale, ma porta all'eccesso, saturandole, situazioni già estreme, smarrendosi in una ridda di personaggi improbabili, canzoni troppo facili sparate a tutto volume, dialoghi che anche no (<E' importante il teatro>. <Ma la fregna di più>), sedute di analisi che farebbero rabbrividire Freud e Musatti, lunghi assoli di tromba,  amiche che sembrano uscite da un (brutto) film di Almodovar.

Dedicato a chi, nel mondo, si sente poco più di un numero ritardatario, di quelli che non escono mai, umanità invisibile che può contare solo su se stessa, <Fortunata> guarda con affetto quel difficile stare a galla di chi convive, con dignità, con i suoi incubi: ma se da una parte Castellitto sa dirigere gli attori, quando la pellicola alza il tono e aggiunge invece di asciugare sbanda in maniera evidente. E quando accade è troppo tardi: non c'è strategia che tenga.

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Nessuno si salva da solo: nemmeno Castellitto

Non so per certo (anche se un'idea ce l'ho) se èpiù in difetto lui, che è meglio come affabulat(t)ore che non come regista, o lei, che insiste a trasformare da sola (quando invece fare un mezzo passo indietro non le farebbe male) i suoi best seller in copioni: ma di certo la premiata ditta Castellitto/Mazzantini, (bella) coppia anche nella vita, cade sempre un po' lì, negli stessi difetti di sempre. C'è un che di ridondante nei loro film, un tono sempre sopra: troppe canzoni (da Leonard Cohen ad Amedeo Minghi, da Lucio Dalla a Tom Waits...), troppe scene madri, troppi movimenti ariosi. La tentazione (spesso fatale) di aggiungere, quando invece bisognerebbe togliere, asciugare, sottintendere, nascondere. Che racconti la fine di un amore e poi magari sul più bello arriva Vecchioni (sì, Roberto), che sembra uscito da <L'uomo dal fiore in bocca> di Pirandello... Peccato, perché di cose buone in questo scene da un matrimonio (finito) che è <Nessuno si salva da solo> ce ne sono: dalla grande alchimia degli interpreti (Scamarcio e la Trinca, premio Schiaretti a Parma 2013) alla fotografia di un fallimento che è sì quello di una coppia, ma forse anche di una generazione se non addirittura di un Paese. Complice la cena (lunga quanto il film) dei due protagonisti, Castellitto serve in tavola in salsa di flashback piatti pieni di rimpianti, accuse, rimorsi: quando i giorni felici sembrano più lontani e la passione ha lasciato il posto alle domeniche all'Ikea, i sorrisi alla cotoletta alla milanese. Lei ha un passato da anoressica, lui da tamarro con romanzo nel cassetto: è stato un grande amore, ma ora si contano lividi e ferite, <che la fortuna non cade dal cielo, la fortuna sceglie: e noi non siamo nella lista>. Ma nell'illusione dell'eternità del sentimento ci si può ancora togliere la voglia di voltarsi indietro.

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