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Le déluge, prima della fine: così muore un'epoca

«Ma la maledizione è anche di quelli che hanno guardato l'agnello negli occhi».

Nel campo lungo della Storia, in un limbo di atroce stupore dove non resta che attendere che sia troppo tardi, la fine di un'epoca e di un (o «del»?) mondo che si consuma al lume di una Marsigliese stonata, bruciando le illusioni dell'ultima recita, prima che, oltre alle teste, cadano anche le maschere.

È un film amaro e coraggioso, più metafisico che storico, quello di Gianluca Jodice che, camminando come nel precedente «Il cattivo poeta» sul filo sottile dell'ambiguità, racconta in chiave contemporanea la morte dell'ancien régime, osservandone l'agonia dal punto di vista della corona, della monarchia, non tanto per il gusto di ribaltare l'evidenza, ma piuttosto per cogliere con originalità, nella progressiva e implacabile spoliazione del «divino», la malinconia dei vincitori, nella concezione edipica di una rivoluzione che, spalancando con violenza la porta dell'era moderna, si ritrova a uccidere il proprio dio/padre.

Diviso in 3 capitoli- Gli dei. Gli uomini e I morti -, narrati con altrettanti codici cinematografici in un percorso che progressivamente porta dalla luce al buio, «Le déluge» accompagna al patibolo il re di Francia, gettando un occhio non compromesso sul breve tempo trascorso dai sovrani deposti nella loro ultima prigione: non quindi solo - come recita il sottotitolo fuorviante - gli ultimi giorni di Maria Antonietta, ma anche quelli del consorte Luigi XVI, re fragile e incredulo costretto in un ruolo troppo grande per lui.

Forte di due interpreti perfetti per misura (Guillaume Canet e Mélanie Laurent), star del cinema transalpino, Jodice gioca in trasferta, su un terreno oltretutto minato, ma nonostante la caratterizzazione a tratti sin troppo truce dei carcerieri, esce vincitore nel cogliere l'umanità di quella caduta, in un finale di partita illuminato con saggezza (ma non è una novità) da Daniele Ciprì e sorretto dalle note dell'ostinato e bellissimo commento musicale di Fabio Massimo Capogrosso. Mentre i titoli di coda scorrono non banalmente al contrario: come ghigliottine che separano per sempre il prima dal dopo.

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Priscilla, Maria Antonietta a Graceland

Maria Antonietta a Graceland: un'altra eroina smarrita a corte, regina senza corona in cerca di un re, per Sofia Coppola: che porta sullo schermo «Priscilla», ideale controcampo al femminile del più pirotecnico «Elvis» di Baz Luhrmann. Basato sulla biografia dell'ex signora Presley, che ha anche prodotto il film, «Priscilla» coglie la solitudine di una «first lady» bambina (la 25enne Cailee Spaeny, una scoperta: Coppa Volpi alla Mostra del cinema di venzia per la migliore attrice), adolescente che sposò il suo idolo, primo grande amore della sua vita, a costo però della sua identità e libertà.

La non sempre facile convivenza col mito, i tradimenti, i sonniferi, le pistole: tra maglioncini d'angora e la moquette d'epoca, la Coppola azzecca con regia rock la carta da parati (attenti e cool sia decor che ricostruzione, usati in senso non ornamentale o puramente estetico, ma con precise finalità narrative) e nel mondo di Sofia fa entrare un'altra delle figure femminili, represse ma non sconfitte, che l'hanno resa famosa, accarezzando la devozione e la trasformazione di una donna-bambina che scelse di essere la moglie del «re».

Vero è che il film, seppure ben centrato, fatto su misura, resta un po' piatto, a tratti un po' moncorde: ma l'autrice, che non ha certo paura di calarsi nel cuore oscuro della celebrità, in quel passaggio della protagonista da ragazzina a bambola e infine (nel momento in cui reclama la sua libertà) a donna coglie un'urgenza universale e assolutamente contemporanea.

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