Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi Recensione, Festival, 2024 Filiberto Molossi

Le Povere creature dì Lanthimos, un film geniale che emancipa lo sguardo

L'emancipazione femminile? E' una strada tortuosa. Anzi, peggio: è un film dell'orrore. Tanto che a volte vale la pena di riderci su. Come fa, con estro e fantasia, il greco Yorgos Lanthimos, che non solo rilegge «Frankenstein» in chiave femminile e femminista, ma nel denunciare la pressione e il controllo con cui gli uomini cercano di ingabbiare (ieri, oggi, sempre..,) le donne gira un film immaginifico e geniale sulla scoperta di sé (e del mondo), un bizzarro e grottesco viaggio iniziatico ai confini del libero arbitrio dove tutto ha il sapore della prima volta.

Fantasmagorico, affascinante, provocatorio, amaro e insieme divertente, «Povere creature!», l'ultimo lavoro dell'inclassificabile autore di «La favorita» e «The lobster», rivisita, attraverso il romanzo omonimo dello scozzese Alasdair Gray, il tema classico e gotico della creatura di Mary Shelley, venandolo di riflessioni universali e molto contemporanee.

Nella Londra vittoriana, un medico dal volto ricoperto da orribili cicatrici (Willem Dafoe) riporta alla vita una giovane suicida (Emma Stone) con un folle esperimento. Senza vergogna e pregiudizio, priva di alcuna maschera sociale e di senso di colpa (e, apparentemente, anche senza passato), la donna abbandona lo scienziato-dio padre che l'ha (ri)messa al mondo pronta a imparare, da Lisbona a Parigi, tutto daccapo: provando sulla sua pelle emozioni e rischi dell'essere...

La natura del piacere e quella del potere, il rapporto - complesso anche per qualsiasi scienza empirica - con il sentimento, l'affermazione di sé al di là delle rigide convenzioni sociali, il sesso, l'innocenza: là dove l'individuo ricrea l'universo attraverso le sue regole e non tramite quelle precostituite e comunemente accettate del sistema, Lanthimos realizza un originalissimo film-esperimento - vincitore del Leone d'oro a Venezia, di due Golden Globes (tra cui quello per la migliore commedia dell'anno) e candidato a ben 11 Oscar - in cui emancipa anche il nostro sguardo, senza paura di eccedere nell'uso del grandangolo (e nel minutaggio: sono due ore e venti), ma, saltando con agilità dal bianco e nero al colore, trovando una sintassi affascinante fra distorsioni, fondali da vecchio cinema, inquadrature da buco della serratura.

 Un mondo dove una strepitosa Emma Stone si può muovere a corpo libero, adorabile «mostro» finalmente libera, come lo spettatore, da qualsiasi catena.

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Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi Festival, 2016, Recensione Filiberto Molossi

Il caso Spotlight: è la stampa bellezza!

Dedicato a quelli che ci sputano addosso: a quelli che, comunque vada, è sempre colpa nostra, a quelli che tanto a cosa servono i giornali, a quelli che nemmeno li leggono perché sono carta straccia. Dedicato a tutti questi: e a quelli che vorrebbero chiuderci la bocca. E' un film importante, necessario, <Il caso Spotlight>; ma non tanto per noi, che ci siamo dentro, ma per chi dai giornali ancora si aspetta qualcosa: rigore, risposte, verità. E non sempre sembra capire quanto sia fondamentale per la democrazia individuale che la stampa libera continui a esistere.

Ha il piglio del miglior cinema di denuncia anni '70, quello civile e scomodo che non aveva paura di scottarsi né di sporcarsi, il robusto film d'inchiesta con cui Thomas McCarthy (è quello de <L'ospite inatteso>) sfida, forte di sei nomination, <Revenant> (e <Mad Max>) nella corsa agli Oscar.

La storia vera di un gruppo di giornalisti investigativi del Boston Globe che nel 2001 svelarono, nonostante continue minacce e intimidazioni, gli innumerevoli abusi sessuali su minori perpetrati da diverse decine di preti della diocesi della città della East Coast, facendo scoppiare un caso che ebbe risonanza mondiale e conseguenze clamorose.

Molto efficace nel cogliere e mostrare nella loro squallida ferocia e ipocrisia le due facce, entrambe orrende, degli abusi, che non sono solo fisici, ma anche spirituali (<quei sacerdoti ci hanno rubato la fede>), <Il caso Spotlight> è un film teso e classico che rispetta i fatti (tutti documentati) e pesa le parole traducendo la coraggiosa e ostinata indagine dei cronisti del Globe non tanto in una sporadica e alla fine inutile guerra santa contro la Chiesa (che peraltro, tramite Papa Francesco, ha preso una posizione netta contro la pedofilia), ma in una grande lezione (sociale e etica) impartita a un intero sistema, marcio, connivente e corrotto.

Nello scandalo di Boston infatti erano implicati tutti: alti prelati, potenti, scuole, famiglie, la pubblica amministrazione: tutti avevano fatto finta di non vedere. E tutti cercarono di insabbiare ogni colpa, ogni vergogna. Uno sguardo impietoso quello del film che non risparmia nemmeno i media, costretti a fare autocritica: per essersi mossi tardi, per avere sottovalutato il problema.

Pellicola corale, <Il caso Spotlight> riunisce molti attori di razza (i candidati all'Oscar Mark Ruffalo e Rachel McAdams, ma anche Michael Keaton, Stanley Tucci, Liev Schreiber, Billy Crudup...) sotto lo stesso tetto senza permettere a qualcuno di prevalere sull'altro, trasformando un cast molto ben amalgamato in una redazione che sa il fatto suo. <Racconteremo questa storia – dice uno dei protagonisti - e lo faremo come si deve>: sì, è la stampa bellezza.

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Foxcatcher e l'arte di perdere (tutto): l'America senza padri in lotta con se stessa

Storia vera ed eccentrica del complesso rapporto di fascinazione che legò uno stravagante milionario appassionato di lotta libera a due fratelli campioni olimpici che il ricco magnate assunse nel suo team, <Foxcatcher>, terzo film di Bennett Miller, newyorchese classe '66 (è quello de <L'arte di vincere>, ma anche di <Truman Capote>), cerca costantemente la presa muovendosi sulla scivolosa pedana della vita, in un abbraccio che sa essere anche mortale. Attraversato da una tensione palpabile, come un filo scoperto dove non smette di passare la corrente, la pellicola - nel confronto (che sublima quello padre/figlio) tra il ricco paranoico che cercava ossessivamente la stima della madre e il gigante triste che non voleva più vivere nell'ombra del fratello - costruisce una moderna tragedia dove il senso di inferiorità dei protagonisti è anche la metafora di un Paese scontento e malato di patriottismo, in continua lotta contro se stesso. Un film ostile, disturbato, antiretorico: <diverso> e perennemente inquieto in quel suo stare alla larga da facili e risolutive scene madri per ingaggiare invece con lo spettatore una vera e propria guerra di nervi, in un crescendo ansiogeno dove l'attenta e calibratissima regia di Miller riduce sempre più lo spazio di manovra di chi guarda, chiudendoci in un angolo da dove non si esce.

Ma se la disturbante sensazione di disagio ha spessore tangibile è merito anche dei superlativi interpreti: se Channing Tatum e Mark Ruffalo (i fratelli lottatori) hanno compiuto un lavoro straordinario anche sulla postura (guardate come camminano: capirete cosa significa essere un attore), a Steve Carell, finalmente in un ruolo drammatico, è bastato un naso finto per incarnare, in modo memorabile, la squallida mediocrità del male.

 

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