Lo chiamavano Jeeg Robot: arriva il super perdente cacio e pepe
Siete stanchi dei muscolosi e vitaminizzati Thor e Capitan America? L'Uomo Ragno vi rampa su per una braga e Hulk vi sembra sovrappeso? Beccatevi il supereroe «cacio e pepe». L'ideuzza non è male, anzi: negli anni plasticosi in cui al cinema imperversano (nel bene e nel male) aitanti e problematici eroi dai poteri clamorosi, qui si butta sullo schermo un ultra perdente all'italiana, balordo nostrano che di super non ha neanche la benzina.
Tentativo interessante di realizzare un cinecomics verace, senza peraltro partire da un fumetto esistente, «Lo chiamavano Jeeg Robot» lo ha girato, all'ombra dei palazzacci di Tor Bella Monaca, il debuttante Gabriele Mainetti, che dentro ci ha messo un po' di tutto: i manga, certe facce alla Pazienza, Tarantino, «Kick Ass», «Scott Pilgrim» e le canzoni di Nada e Anna Oxa... Ne viene fuori una favola pulp dai colori accesi e pop, risposta made in Italy e iconoclasta ai lucidatissimi personaggi della Marvel: peccato però che, nonostante la spavalderia, tutto o quasi (specie a livello estetico) sia già visto e rimasticato.
Anche se stavolta il supereroe è un senza Dio cresciuto in periferia, brutte scarpe di camoscio ai piedi e una passione smodata per i film porno e per lo yogurt. Uno come Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria, bravo), insomma: ladruncolo da strapazzo che dopo un bagno imprevisto nel Tevere viene a contatto con delle scorie nucleari che gli donano una forza sovrumana. Abbastanza da dare una svolta alla sua carriera criminale...
Spintissimo sin dalla prima uscita alla Festa del cinema di Roma (dove venne accolto da ovazioni e applausi a scena aperta), sostenuto da una campagna promozionale a tappeto (Santamaria l'altro giorno era persino a Sky Sport, per dire) e favorito da una data di uscita scelta con molta attenzione, «Lo chiamavano Jeeg Robot» (che nel titolo richiama un famoso cartoon giapponese degli anni '70) è un film acido, violento, anche divertente, che strizza l'occhiolino a più non posso allo spettatore, eccedendo però nel grottesco e cercando giustificazioni serie (la ragazza abusata da piccola, le bombe fatte esplodere dalle cosche) a un contesto (specie nella seconda parte, quando la pellicola, partita bene, cala) più sguaiato che irriverente.
Ant-Man: anche le formiche nel loro piccolo si incazzano
Piccolo è bello. E pure meglio. Certo, <forse> preferireste essere Messi piuttosto che Brunetta, ma il concetto non cambia: altezza, almeno al cine, non è più <mezza bellezza>. E a Hollywood, specialisti da tempi non sospetti in avventurose miniaturizzazioni, lo sanno bene: da <Viaggio allucinante> a <Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi>, i protagonisti in formato tascabile hanno sempre avuto il loro pubblico. Oltre che un bel da fare. Capita così che l'eroe di turno (garantisce mamma Marvel) oltre che <super> sia anche molto <mini>: e vada alla carica in sella a formiche alate in versione Pegaso, buttandola però, e nemmeno poco, anche sul ridere. Cinefumetto di spiccata e insistita ironia (non a caso è diretto da uno specialista in commedie come Peyton Reed), filo etologo, animalista (la critica agli esperimenti da laboratorio) e ultra familista (tra un padre che cerca faticosamente di ricucire il rapporto con la figlia e un altro che vuole diventare per la propria piccola l'eroe che lei pensa che già sia), <Ant-Man> trasforma un ex hacker Robin Hood appena uscito di galera (Paul Rudd, simpatico) nel minuscolo uomo-formica, capace grazie a una tuta prodigiosa di ridursi a piacimento in un coraggioso pronto a tutto alto 3 millimetri e mezzo... La mission (ovviamente impossible) è quella di rubare (con l'aiuto dello scienziato Michael Douglas) un'arma che rischia di finire nelle mani sbagliate.
Arruolato un personaggio che circola negli albi dei fumetti già dal '62, <Ant-man> si traveste da heist movie (i film sui furti), rileggendo con humor il mito tutto americano della seconda occasione: peccato però che ci metta un'ora buona per entrare nel vivo. E' vero, le possibilità (a sfondo spettacolare) che offre un mondo visto ad altezza formica sono infinite: l'acqua che esce dalla vasca sembra uno tsunami, un topo un leviatano e un treno giocattolo un Freccia Rossa. Ma forse sarebbe stato meglio che il pallino fosse rimasto in mano all'iconoclasta Edgar Wright (quello di <Scott Pilgrim vs. the World>), la prima scelta, che dopo avere presentato 5 versioni della sceneggiatura ha rinunciato al progetto lasciando via libera al più tradizionale Reed. Ci si diverte, ma l'impressione è che si potesse lavorare più di fino. Poi, d'accordo, non tutto è vano: almeno adesso ci penseremo due volte a pestare una laboriosa formica. Non fosse altro perché, come è noto, nel loro piccolo si incazzano.