L'uomo di neve: il thriller sottozero si scioglie in fretta
Sarà che ne abbiamo già visti mille di thriller sottozero (da <Fargo> in avanti), cristallizzati in un gelo anche emotivo, derubati del più timido raggio di sole, smarriti in un bianco che annulla. Sarà questo, forse. Oppure sarà che di detective stropicciati e sensibili al fascino della bottiglia ne è pieno il mondo (e il cinema) così come di serial killer che giocano con la polizia come fossero il gatto col topo. O forse sarà che anche di scrittori nordici maestri del thriller ultimamente c'è un po' un affollamento. Sarà per tutte queste ragioni che <L'uomo di neve> non funziona o almeno non come dovrebbe. Anche se è lecito stupirsi perché produce Scorsese, che avrebbe voluto addirittura dirigerlo: per poi passare la mano a Tomas Alfredson, che ha fatto benissimo con <Lasciami entrare> e con quel perfetto meccanismo a orologeria che è <La talpa>. Eppure il film, tratto dal settimo romanzo della saga dedicata a Harry Hole, l'investigatore nato dalla penna dell'ex calciatore, musicista e attualmente numero uno del noir scandinavo Jo Nesbø, non ha quella malattia, quella tensione un po' livida, un po' sporca, quelle svolte improvvise e ambigue che vorresti(e dovresti pretendere) di trovare in un prodotto del genere, replica e copia, più brutta che bella, di suggestioni sviscerate meglio altrove, anche da alcune serie tv, meno trattenute, rispetto al thriller di Alfredson, nell'affondare il colpo.
Harry, detective sui generis, alcolizzato e senza patente, che dorme dove capita e non va d'accordo con la tecnologia, indaga ad Oslo su una serie di efferati omicidi. Le vittime sono tutte donne: e davanti alle loro case l'assassino lascia sempre la sua macabra firma. Un inquietante pupazzo: di neve, ovviamente.
C'è un bel grumo di padri assenti o mai dimenticati, legami spezzati con violenza, figli orfani o illegittimi nel cuore del giallo, classico e glaciale, di Alfredson che svuota gli armadi dagli scheletri del passato per detonare contraddizioni e ipocrisie dell'istituzione famiglia, senza negarle, nel suo trasformarsi e perdonarsi, qualche estrema speranza. Ma tutto resta un po' lontano e raffreddato: l'ambientazione, intrigante, fa molto ma nemmeno troppo, e il già visto sovrasta la scarsa introspezione e le dinamiche di un intreccio che andava più limato, sgrezzato, levigato. Tanto che anche il protagonista Michael Fassbender, sofferente quanto basta, si aggira sul set un po' spaesato.
Alien: Covenant, un ripasso con poche idee
<Lo senti?>. <Che cosa?>. <Il niente>.
Sulle note di Wagner, tra i versi del più famoso dei sonetti di Shelley, l'irresistibile tentazione di essere (un) dio: alla ricerca (ancora) di una nuova frontiera, dove, nel mistero assoluto della creazione, la macchina è più uomo dell'uomo. Promette molto ma mantiene poco, più interessato a riproporre vecchi (e fortunati) schemi che non a cercare nuove (magari rischiose) piste e idee, l'ultimo <Alien>, ennesimo capitolo di una saga che i suoi 38 anni li porta con baldanza ma senza riuscire, d'altra parte, a nascondere i primi acciacchi. Meno filosofico di <Prometheus> (le grandi domande dell'esistenza qui appaiono solo annacquate), di cui è il sequel, il film di Ridley Scott (80 anni a novembre), nella ripetizione di un copione collaudato (un gruppo di coloni spaziali, un pianeta sconosciuto, l'inevitabile scontro con la <creatura>), solletica la nostra immaginazione, ma tra le molteplici possibilità che gli si aprono davanti si imbatte nel scivolosissimo (e assai sfruttato) tema del doppio, non particolarmente necessario e risolto inoltre (considerate le ambizioni di fondo) in maniera piuttosto semplicistica.
L'astronave Covenant è diretta su un lontano pianeta, ma qualcosa va storto: l'equipaggio si sveglia prima del previsto dal sonno criogenico per affrontare un'emergenza. E' solo l'inizio di un terribile incubo: che porterà i <pionieri> a doversi difendere dalla minaccia aliena.
Sin troppo esplicito, quando non telefonato (come nel finale a <sorpresa>: e le virgolette non sono messe a caso...), <Alien: Covenant>, ansiogeno solo a tratti, ripassa molto e inventa poco, rivelando in maniera scoperta le proprie intenzioni quando invece avrebbe fatto meglio a confonderle, a mascherarle. E se tute, zaini, giubbotti, astronavi che spiegano le vele, caschi (quelli made in Parma dalla Northwall di Gianluca Martini...) e armi hanno un fascino perché sembrano appartenere a un'archeologia spaziale, le scene d'azione, dapprima cinetiche ed efficaci, si fanno via via molto già viste (come dinamica e situazione), lasciando lo spettatore in cerca di qualcosa di più e di meglio di un confronto allo specchio (quello tra gli automi David e Walter, entrambi interpretati da Michael Fassbender) che a volte sembra uscito da un brutto <Star Trek>. Peccato, perché la potenzialità della saga sembra intatta, anche se forse necessita di uno sguardo diverso, più iconoclasta. A costo di uccidere, insieme agli alieni, anche il mito.
La luce sugli oceani: galeotto fu il faro e chi lo accese
Galeotto fu il faro e chi lo accese: li hanno mollati su un'isola deserta per un mese, tanto per vedere l'effetto che fa. Loro però, lungi dall'annoiarsi, sono entrati talmente nella parte che poi hanno cominciato a fare coppia fissa per davvero. <La luce sugli oceani> si accende per Michael Fassbender e Alicia Vikander: peccato però che nel melodrammone che li ha fatti innamorare il meno illuminato sia proprio il regista Derek Cianfrance, che getta due anime nella tempesta, agitando - su uno scoglio in mezzo al nulla battuto da un vento incessante (esilio volontario che si trasforma in gabbia emotiva) -, lo spettro della colpa (compagna inseparabile di un isolamento che alla lunga diventa anche morale), in una tragedia della genitorialità (mancata o derubata) dove il rimorso mostra denti affilati, mentre il perdono si rivela scelta più estrema (e definitiva) del rancore.
Un guardiano del faro profondamente segnato dall'esperienza della prima guerra mondiale e la sua giovane moglie salvano una bimba dalle acque e decidono (non riuscendo ad avere figli) di tenerla come fosse propria, nascondendo a tutti la verità...
Girato in condizioni climatiche proibitive, tratto dall'omonimo romanzo di Stedman, il film di Cianfrance (<Blue Valentine>, <Come un tuono>) stringe sui volti per poi indulgere in spettacolari panoramiche affrontando in campo e mare aperto, in una furia anche interiore, un percorso dai toni quasi biblici dove anche l'isola – oltre all'uomo, morto dentro e risvegliato dall'amore e alla donna, gravida di desiderio di normalità – diventa un personaggio fatale.
Il mistero della maternità, l'ombra, attualissima, dei migranti (il padre naturale della bimba vittima dei pregiudizi in quanto straniero...), la difficile (a volte impossibile) convivenza con le proprie decisioni, con le proprie debolezze: temi, dilemmi, passioni forti (e laceranti) che l'autore avrebbe però dovuto affrontare con un piglio decisamente più personale, invece di accontentarsi (il rischio polpettone è dietro l'angolo) di illustrare le conseguenze traumatiche di scelte (anche quando dettate dall'amore) avventate, sbagliate.
Il risultato è un film classico e crudele che vorrebbe scuotere dentro: ma non sempre un vetro rotto è figlio di una finestra che sbatte.
Steve Jobs, l'uomo che suonava tutta l'orchestra
Come può un uomo che non sa fare nulla – che non è un ingegnere, né un progettista, né un designer, né un esperto di marketing né, tantomeno, un buon padre –, cioè insomma uno che non sa nemmeno piantare un chiodo alla parete, essere un genio del computer? <Semplice: i musicisti suonano uno strumento, io tutta l'orchestra>.
Lo scrivo prima che qualcuno alzi la mano e dica che ha degli impegni o che del signor Steve Jobs in questi anni ha sentito parlare fin troppo: questo film è bellissimo, ma bellissimo davvero. E feroce, impietoso, brillante, serrato, intelligente. E coraggioso, soprattutto: nel rifiutare le false comodità del biopic, innanzitutto, rompendo invece le regole di un genere per riscriverle alla propria maniera. E svelare il <mistero Jobs> - la personalità contraddittoria e visionaria di un rivoluzionario incapace di esser migliore delle sue invenzioni – attraverso tre momenti chiave della sua vita privata e professionale, corrispondenti ai lanci di altrettanti prodotti. Come una sinfonia in tre movimenti il nuovo film di Danny Boyle, ognuno colto visivamente in un formato cinematografico (16 millimetri, 35 millimetri e digitale) differente, dove il fondatore della Apple incontra e si scontra con le stesse persone. Il medesimo schema, ma sempre diverso: ripeti, chiudi e riavvia.
Dal 1984, l'anno in cui il pc fu personaggio dell'anno per il Time, al 1998 del successo planetario dell'iMac: interamente o quasi ambientato in un teatro (la vita come una pièce), il cui ventre ricorda il cervello di un computer, l'ultimo lavoro del regista di <Trainspotting> e <The millionaire> disegna con un approccio narrativo spericolato il ritratto definitivo del <mito> Jobs, rendendolo il protagonista (adorato come un dio dagli estranei, detestato da chiunque lo conoscesse bene...) di un film chiuso, <end to end>, soffocante e incalzante, pieno di sfumature e di ombre. Una pellicola che Boyle, con felicissima intuizione, costruisce come una serie continua di confronti, replicando, in pratica, in una sorta di sistema binario, il rapporto tra uomo e computer, client/server, film/spettatore. Arrivando al cuore delle ossessioni di un artista al comando sull'onda di scelte stilistiche accattivanti, interpreti perfetti (su tutti Michael Fassbender, a cui basta un maglione nero per diventare Jobs, e Kate Winslet, entrambi candidati all'Oscar) e dei dialoghi pirotecnici e sorprendenti del geniale Aaron Sorkin (premiato col Golden Globe, ma dimenticato dall'Academy: che sarebbe un po' come andare al Louvre e scordarsi di vedere la Gioconda...). Un film folgorante, osteggiato a lungo dalla vedova di Jobs, ma moderno e scomodo; non un santino né una demolizione, ma, più di tutto, l'evoluzione di un sistema operativo complesso: l'uomo.
Salve Macbeth, che sarai re: furia, sangue e Shakespeare
Del sangue e della furia: e delle ombre che agitano, come scorpioni velenosi, i pensieri. «Salve Macbeth, che sarai re». E’ un film pallido, feroce e senza sole, figurativamente potente - nel contrasto tra esterni e interni, totali e primi piani, come pure nelle sottolineature pittoriche delle panoramiche e nell’uso del colore in senso narrativo (la fotografia, splendida, è di Adam Arkapaw, lo stesso del primo «True detective») -, l’ennesima trasposizione della tragedia shakespeariana sul delirio del potere e dell’ambizione. Un classico tra i classici che ora l’australiano Justin Kurzel, visionario della prima ora, dipinge sullo schermo esaltandone il carattere dark e ostile (il freddo, come l’inospitalità degli ambienti, sono tangibili) per coglierne, restando fedele al testo, l’anima più cupa, ieratica e desolata. Un film livido e «spaventoso» (perché accecato dalla malvagità e affogato nella colpa) questo «Macbeth», interessante soprattutto da un punto di vista formale, meno entusiasmante invece da quello della rilettura di un testo già tradotto e adattato per il cinema (in modo più personale e definitivo) da giganti come Wells, Kurosawa e Polanski. Battuto dal vento, accompagnato da una colonna sonora (sin troppo insistita) stridente e minacciosa, il «Macbeth» di Kurzel usa molto bene gli spazi, cercando prima nella nebbia la paura sui volti dei soldati-ragazzi e poi virando in rosso, tra fumo e sangue, il duello finale: ne esce un film più affascinante che appassionante, potente però nello sguardo. E nelle interpretazioni di una coppia di star – Michael Fassbender e Marion Cotillard – che portano con sé sgomento, rabbia e lacrime della dannazione.