Da 5 bloods, orgoglio black: il Vietnam struggente dei reduci di Spike Lee
«Non siamo a casa figliolo, non siamo a casa».
C'è una cosa bellissima in questo film, tra le tante: accade quando lo schermo si stringe in un 4/3 e la fotografia si fa anticata. Succede lì, nei flashback: dove i quattro protagonisti invece di ritornare giovani restano tali e quali a come sono, dei vecchi. Appesantiti e un po' malfermi, col fucile in mano, la divisa, l'elmetto. Qualcun altro avrebbe ingaggiato per impersonarli attori di 20 anni, oppure utilizzato (come Scorsese) le costosissime tecniche digitali per togliergli le rughe e qualche decina d'anni. Ma non lui, non Spike Lee: uno che è da 30 anni che fa la cosa giusta. E quei quattro reduci li voleva così: ancora imprigionati nell'anima corrotta di una guerra maledetta che non finisce mai veramente: «come le mine sotterrate che fanno ancora morti dopo tutto questo tempo».
Marvin Gaye, Edwin Moses, il gran rifiuto di Muhammad Ali («Perché dovrei sparare ai vietcong? Loro non mi hanno mai chiamato negro»), la maledizione dell'oro, «Black Lives Matter»: potente, profondo, traumatico e doloroso nella sua circolarità - dal prologo, efficacissimo, che stabilisce un collegamento indelebile tra la guerra in Vietnam e e le contemporanee proteste, soffocate con la violenza, dei neri in America all'epilogo che evoca George Floyd e si chiude sulle parole del reverendo King -, «Da 5 bloods» è un film struggente e pieno di fantasmi, di cicatrici, di sbagli che hanno ancora conseguenze, di furia cieca, di insopportabili sensi di colpa, di conti mai regolati, di figli disconScosciuti e ritrovati. Là dove i fratelli «non moriranno ma si moltiplicheranno», il regista afroamericano gira un film militante e orgogliosamente black, immaginando il ritorno nel Vietnam di oggi, colonizzato da McDonald e Pizza Hut, di 4 soldati Usa che lì hanno lasciato, sepolto nella polvere, un amico. E una cassa piena d'oro...
E in questo ritorno all'inferno, in questo viaggio dentro i propri demoni, Lee non nasconde un grande bisogno di redenzione, nella consapevolezza che la vera guerra (quella coi bianchi, col potere, con secoli di vergogna e sfruttamento) infuria ancora nelle strade, nelle metropoli, nei ghetti: il regista gonfia il petto di retorica nera, ma ne fa manifesto in un momento storico in cui la rivolta riesplode e tutto cambia per restare uguale. Vero, alcuni passaggi sono grossolani o troppo spiegati e il film si dilunga, ma l'autore de «La 25ª ora» fa bene anche il lavoro sporco, alternando le sequenze belliche ai monologhi-sermoni con lo sguardo in camera, alla ricerca di una verità storica che vada oltre la propaganda che più bianca non si può di Rambo & friends, prendendo volutamente le distanze dal «genere Nam» (le citazioni di «Apocalypse now», che ora al massimo è il nome di un disco pub) e da «quelli di Hollywood» che «cercano sempre di vincere la guerra del Vietnam». È la classe di un regista che sa quando è il momento di alzare la voce. «Mi sentite?». «Ti sentiamo».