Anora, la rom-com 2.0 che ha trionfato a Cannes
È un film svelto, che pensa veloce, con un montaggio da «discoteca» e la bella faccia indie, sfatta quanto basta, la rom-com 2.0 che a sorpresa ha vinto l'ultimo Festival di Cannes: consacrazione di un 53enne autore americano, Sean Baker, alfiere del cinema off, che il mondo scoprì nel 2017 grazie a Un sogno chiamato Florida, un film originale che all'epoca divenne un piccolo caso cinematografico; cantore degli emarginati (e dei sex worker...) era in effetti un profilo perfetto per la presidente di giuria Greta Gerwig che prima del successo planetario di «Barbie» ha illuminato il cinema di un altro indipendente di talento, suo marito Noah Baumbach.
Divertente, sfacciato, felicemente libero e informale, «Anora» è una sorta di esilarante «Pretty woman» dei giorni nostri, dove la favola dell'ennesima Cenerentola viene convertita a una modernità pop dall'energia e dall'autenticità dei vent'anni. Cinema vitalissimo e spudorato quello di Baker, che con non banale leggerezza racconta la storia di una giovane spogliarellista e escort di New York che si ritrova rocambolescamente sposata con il multimilionario figlio di un oligarca russo...
Funziona molto, ma più di tutto i due giovanissimi e irresistibili (lei, Mikey Madison, non mi stupirei di rivederla agli Oscar) protagonisti. Una boccata di aria fresca nel mainstream dei soliti noti per una commedia agrodolce e senza moralismi che non ha paura di dare al cinema del tu: anche se la Palma sembra anche a mesi di distanza (uscito da casa il film perde un po' di spinta e gioca con gli imprevisti) un riconoscimento eccessivo
Mistress America, sorellanza senza retorica: come fai a non volergli bene?
E' figlio di due critici ed ex marito di un'attrice famosa (Jennifer Jason Leigh) e sul set non lo sentirai mai gridare <azione!>, ma al massimo buttare lì, con educazione tutta newyorchese, un <cominciamo> o un <quando volete>... Se ancora c'è qualcuno che si domanda perché in Italia non si fanno film (apparentemente semplici e sempre efficaci) come quelli di Noah Baumbach – 46 anni, da Brooklyn, nome di punta del cinema indipendente a stelle e strisce - la ragione è presto detta: non siamo capaci. Non li sappiamo scrivere così bene, non abbiamo attrici così in gamba (o non le facciamo lavorare) e mentre lui (già stretto collaboratore di Wes Anderson) riesce con estrema facilità a rendere autentico un soggetto inventato noi di solito brilliamo nell'impresa opposta. E' anche per questo che non è difficile volere bene a un film come <Mistress America>, tra le cose migliori passate all'ultima Festa del cinema di Roma, disinvolto e scioltissimo sia a livello di scrittura che di montaggio: una commedia divertente, <smart>, intelligente, antiretorica, diretta e onesta oltre che priva di qualsiasi orpello e (facile e non) moralismo.
In una New York dove capita spesso di sentirsi soli, l'incontro, sul filo della <sorellanza>, tra Tracy, goffa e esclusa matricola del college che passeggia per il mondo come una che è a una festa dove non conosce nessuno e Brooke, trentenne vulcanica, incontenibile e soprattutto inconcludente. Non si conoscono, ma la madre dell'una e il padre dell'altra hanno deciso di sposarsi: tanto vale fare amicizia...
Scritto molto bene, con dialoghi frenetici e parole che rimbalzano come in un flipper in cui mentre si discute di una cosa si è già passati a un altro argomento (e via così), <Mistress America>, tra buffe sedute spiritiche, meeting letterari di donne incinta e ricchi <che si inventano di tutto per non spendere>, cuce due bei personaggi addosso a Greta Gerwig (musa e co-sceneggiatrice del regista) e a Lola Kirke (che al supermercato, indecisa su che pasta prendere, sceglie la Barilla...), bravissime nel restituire sentimento e insuccesso di due generazioni che (come tutti) faticano a capire qual è il loro posto nel mondo.